domenica 28 febbraio 2010

QUINTO STATO: DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE CONTRO L'EVERSIONE PIDUISTA.

Proseguo la riflessione sul quinto stato. In particolare, ho letto con interesse “la scomparsa dei fatti” di Travaglio. Scomparendo dallo scenario mediatico, i fatti scompaiono anche dalla realtà sociale, dalla vita sociale del paese. O subiscono un ordine gerarchico per importanza, secondo il punto di vista di chi li riordina, secondo ciò a cui il manovratore vuole dare più importanza. Ma il manovratore in realtà esiste nella complessità in cui si determina il potere dei media e, ancor prima, il potere finanziario. Non c’è un grande fratello o, per lo meno, lo identificherei in un’agenda setting che prosegue di default, con aggiustamenti in corso d’opera a seconda dei Minzolini di turno.

È un sistema ben oliato, un punto di vista di classe che si è spalmato su tutta la società. Detto questo però, i fatti non “scompaiono” solo sul piano mediatico. Ancor prima sono scomparsi nell’ambito strutturale delle relazioni sociali, nell’ambito contemporaneo della polis. Per fatti, badate bene, intendo la totalità degli avvenimenti che fanno storia, che riproducono la vita di una comunità. Nell’immaginario vige una società fatta di relazioni sociali mediate dallo stato, con strumenti di garanzia e di democrazia tali per cui, sulla carta esiste la libera iniziativa e non i cartelli, i monopoli di pochi, esistono i diritti e non la mobilità selvaggia del lavoro e sacche di indigenza anche negli strati sociali post-borghesi.

I fatti che viviamo sono completamente diversi e ci parlano di una società assoggettata agli interessi di pochi gruppi finanziari industriali, dove la burocrazia e i suoi costi spropositati, determinati anche da un debito pubblico mostruoso, impediscono e minano quotidianamente la libera iniziativa, a partire dalle piccole imprese, una vita semplice dei cittadini, le tutele del lavoro dipendente, una dinamica riallocazione dei soggetti privi di lavoro e protezione sociale. È un liberismo a metà, che funziona solo per poche entità finanziarie e industriali, ma che dall’altra parte vampirizza il resto del paese. È un falso liberismo, in realtà una dittatura di poche famiglie che hanno appalti, concessioni, incentivi, agevolazioni estratti dalle risorse pubbliche, ossia da tutti noi. Per non parlare della grande truffa del signoraggio.

Questa è la realtà dei fatti. Da qui parte ogni narrazione, falsa, della società nel suo divenire. I fatti reali, sono invece corpi, menti, aggregati micro-sociali, siamo più sul piano dell’ontologia umana, dell’antropologia, che su quello fenomenologico della sociologia. L’uomo lukacksiano: ontologicamente democratico, non esiste. In risposta al grande disagio alienante, alla paura della dissoluzione nella massa, nella burocrazia dei carrozzoni pazzi di uno stato avulso da ogni realtà quotidiana, si formano correnti e micro-aggregazioni di pensiero. Che può essere pensiero prevenuto, per prendere in prestito dalla psicologia un concetto ben attinente a ciò che intendo dire, ossia la Lega, l’irrazionale paura del diverso, la genesi del razzismo del tutto importato da un contesto fortemente competitivo, che genera terrori post-moderni. Oppure può essere ricostruzione di una narrazione vera, che diviene resistenza umana in sé. Nel mio “umana” non c’è l’assolutismo Schmittiano dei Calderoli verso colori della pelle differenti, o religioni differenti. La mia non è una visione totalitaria, quella del noi siamo umani, gli altri no. È la totalità delle espressioni culturali, sociali, micro-economiche che nascono come risposta a questa involuzione reazionaria. Il quinto stato è questo.

I fatti scomparsi riappaiono dal virtuale della rete alla materialità di una ritrovata autonomia dalla polis corrotta. Non autonomia del politico, ma autonomia dal politico. Nel concetto “biopolitica” si esprimono i milioni di corpi e di menti ricomposte in una critica globale all’esistente che il grande default ci impone.

È la nuova autonomia di classe. Un discorso antico e nuovo al tempo stesso. Non più la rivoluzione politico-militare del fucile, ma l’onda d’urto di una soggettività che disvela con la non-violenza della ragione, quella che è la realtà per quella che è. Si sono ribaltati i termini della questione: lo stato siamo noi. Il quinto. Che difende la democrazia e con essa la carta che l’ha fondata. Quella dei nostri padri.

sabato 27 febbraio 2010

QUINTO STATO: RIVOLUZIONE IN RETE


Nell’intestazione di questo blog, c’è il Quarto Stato di Pelizza da Volpedo, un’opera che è simbolo da sempre della classe salariata, il proletariato, come quella parte della società che nella rivoluzione socialista e poi comunista, espropria del potere e dei mezzi di produzione la borghesia e il suo sistema capitalistico e crea un mondo di eguali e di liberi.

Questo è il nodo della contemporaneità da 150 anni a questa parte. Quarto Stato nel suo valore intrinseco di allegoria di un mondo nascente, è ancora attuale.

Se partiamo da questa premessa, in realtà non esiste un “quinto stato”. C’è solo da realizzare un mondo nuovo a partire dal quarto. Certo, inserendo questioni che ai tempi di Marx e ancor poi, non potevano essere prefigurate, come l’aggressione all’eco-sistema da parte dei centri di potere del capitalismo e della speculazione, di chi mette al centro il profitto e non il bene comune.

Il mio, dunque, è un titolo provocatorio, che risponde al grande assillo pasoliniano della società omologata sul piano sociale e culturale dal potere della televisione. Anche Pasolini non poteva capire, nell’Italia del dopoguerra prima, e del boom economico poi, quanto l’involuzione culturale del medium televisivo avrebbe portato dopo l’unificazione in un’unica koinè le diversità linguistiche e culturali delle mille italie, da nord a sud della penisola, alla creazione di tante isole di arretratezza nel fenomeno dei migranti e del confronto con altre culture. Di mezzo c’è stato il berlusconismo, la genesi dell’uso spregiudicato e oserei dire criminale del mezzo televisivo, che ha portato alla manipolazione dei fatti, della vita, della realtà vissuta dalla koinè. Dalle macerie di una sinistra crociana e neorealista, emergono gli echi da oltralpe di un gigante del pensiero critico contemporaneo: Guy Debord, con le sue feconde intuizioni espresse nei Commentari sulla società dello spettacolo. In Italia del resto, lo spazio culturale lasciato da un PCI culturalmente reazionario, è stato punto colmato, ma con un’inefficacia teorica e di prassi, da sedimenti intellettualistici della nuova sinistra, l’autonomia “creativa” (Zut, A/traverso, ecc.), con il solo positivo intendimento destrutturante, ma non realmente costruttivo. Nel corso degli anni ‘90 Koinè e società nel suo complesso hanno coinciso. Il “quarto stato”, pur esistendo come “classe in sé”, si è omologato nel consenso bipartisan della concertazione “riformista” e sindacale da un parte e dell’uniformità ai valori simbolici, estetici, in definitiva culturali dei media su antenna e carta stampata.

Sto descrivendo le basi culturali, intese come cultura di massa e per la massa, del patto sociale su cui si è innestato il berlusconismo, e su cui si sono tessute le alchimie distorte della politica dei partiti bipolaristi. Le premesse che hanno dato vita, anche dopo la prima repubblica, all’intreccio, ma direi proprio verminaio, del sistema dei partiti in Italia.

Solo che, con lo sviluppo delle contraddizioni del sistema, e con l’accesso a un sistema di informazioni multidirezionale e orizzontale delle informazioni, nel primo decennio di questo millennio, accade una cosa che rimette in gioco energie sociali. Sempre più parti della società escono dalla visione drogata, unidirezionale e piramidale della realtà, i media su antenna e su carta diventano obsoleti, grazie alla rete.

In realtà (realtà... è proprio il caso di dirlo), l’avvento della rete è molto più rivoluzionario di quanto gli esegeti dei media convenzionali dominanti e della classe politica bipartisan inizino a sospettare.

Quando Il Tg 1 di Minzolini ci parla di assoluzione di Mills - un falso che andrebbe denunciato all’ordine dei giornalisti - ecco che appaiono in rete una miriade di risposte, item di ogni tipo che sbugiardano, spiegano, tematizzano. Miloni di persone seguono blog di ogni tipo e natura, interagiscono e dialogano in rete. Un “quinto stato”, o, anzi: e “quinto potere” - la concidenza tra classe di “risvegliati” o “non drogati” e produttori di informazioni, cultura, valori, etica, emozioni, passioni, è pressoché totale - sta emergendo destrutturando su ogni piano, culturale, tecnologico e biopolitico, il vecchio assetto, l’ancien regime della politica, dei rapporti sociali opprimenti e ricondotti verso qualsiasi logica di dominio. È rivolta anti-potere in sé, da Teheran a Pechino, passando per Cagliari.

Paradossalmente, ma poi neanche tanto a ben pensarci, è la rete che, destrutturando con una critica spesso sagace, con un’informazione libera da pastoie finanziarie, i simulacri del pensiero unico del “panino” televisivo, ricostruisce la realtà dei fatti con tutte le sue libere interpretazioni. Ricrea un senso autentico della vita sociale e della realtà. Quindi divenendo una “koiné altra”, si fa “stato”, o meglio dire rappresentante più autentica di un bene comune, con tutto il suo portato di valori civili e costituzionali.

In Italia, è in questo ambito che la sinistra rigenera il suo patrimonio storico di idee e ideali. Un fenomeno come il “movimento viola”, vede accodarsi, per meri e contingenti interessi elettorali, il funzionariato a più livelli del PD e di altre forze residuali della sinistra. Una politica di sinistra che non ha più nulla da dare, che non è più “lavoro di massa dell’avanguardia”, ma infiltrazione opportunistica bella e buona.

Per chi pone al centro la liberazione di questo paese dal potere diffuso delle mafie e del capitale finanziario colluso con esse - di cui il governo Berlusconi è rappresentante e portavoce, elemento politico spudoratamente organico - per chi mette nell’agenda politica come fattore dominante di una fase, la questione democratica, la rete è il terreno d’azione che va dal virtuale alla realtà della lotta politica nella società.

Saldature, è la parola decisiva. Saldare le diverse istanze, in mille centomila, milioni di connessioni, in cui democrazia diviene esercizio delle idee, espressività creativa in rete, dove diritti civili, lavoro e anti-razzismo, nonviolenza e lotta per la pace, difesa del bene comune e della vita del pianeta, si intrecciano e si fondono nella spirale di una rete di fili che esce dalla virtualità della fibra ottica per divenire materialità di uno scontro sociale.

La diffusione di massa delle nuove tecnologie di connessione è la controindicazione della globalizzazione per un sistema che ha voluto avere troppo, dominare ancora di più e che oggi si ritrova a franare tra scandali come i finanziamenti al G8 e la truffa mafiosa di Fastweb e Telecom, senza poter più contare sull’efficacia dei vari tirapiedi alla Minzolini.

La realtà non si può nascondere.

L’inizio della fine per questi signori è alle porte. Mi immagino le risate seppellitrici di Guy.

L'ESERCITO DEL... PENE


Ancora una volta, Berlusconi divide il paese in due. I comunisti, le toghe rosse, la sinistra nel suo complesso rappresentano una sorta di esercito del male, con accostamenti grossolani tra comunismo italiano e gulag sovietici, che neppure uno storico serio di destra farebbe. E lo fa con una visione manichea, demonizzatrice dell'avversario, tipica dei fascismi più classici: da quello argentino di Videla, di cui Gelli era un estimatore e ispiratore (la famigerata Loggia Pro Patria argentina era nata da una costola della P2). Provate quindi a pensarci: un presidente del consiglio che era tesserato alla P2, proprietario di tre reti televisive e con il controllo pressoché totale della RAI, con un impero mediatico impossibile in ogni paese democratico, salito al potere con l'appoggio della mafia (la nascita della seconda repubblica), rappresentante di interessi e di intrecci tra capitale finanziario e criminalità organizzata, che suddivide il paese in due: esercito del bene ed esercito del male. C'è di che rabbrividire.
Più di esercito del bene, parlerei di esercito del pene. Tra escort, coperture mafiose, tangenti al G8 e cazzi vari, nel culo ce lo mette a noi cittadini.

domenica 14 febbraio 2010

LA BINETTI SE NE VA DAL PD.


Si leva da' 'oglioni. La Binetti se ne va dal PD, ovvìa. Finalmente. Il PD non è il mio partito, ma mi chiedevo come si facesse a tenere tra le palle una dell'Opus Dei, una bigotta che si fustiga, che si mette il cilicio. Quel che peggio una che, nel nome del cattolicesimo più becero e oscurantista, sostiene le peggiori posizioni in materia di aborto, fecondazione assistita, coppie di fatto, famiglia in genere. Entra giustamente nell'UDC di Casini, la Binetti. Ha fatto bene. Per completare l'opus, dovrebbe avere anche il buon senso e la correttezza di rimettere il mandato di parlamentare, e non infilarsi in qualche altro gruppo parlamentare come probabilmente farà.
Quello che però mi fa incazzare è che nelle interviste che dà, sembra sempre che per i cattolici non ci sia posto nel PD e nella sinistra in genere. Come se i cattolici dovessero per forza professare idee come le sue. O come se lei e quelli come lei fossero i rappresentanti DOC del mondo cattolico.
Il mondo cattolico invece è molto vasto, eterogeneo e differenziato. Molti credenti hanno posizioni sulle staminali, la fecondazione, le coppie gay, il matrimonio, l'aborto, molto più simili a quelle di qualsiasi laico progressista. La vita e il buon senso, la vera compassione per chi subisce discriminazioni, quindi un vero senso cattolico, guida milioni di fedeli in Cristo in Italia.
E meno male! 

LORO RIDONO...



E' l'Italia dei furbi, rappresentata dal superfurbo, che quando riceve un altro premier da farsa come lui, Berisha, e firma un accordo per far diventare l'Albania la pattumiera dell'Italia e per controllare le coste dagli sbarchi di immigrati, dice che magari si fa un'eccezione con qualche bella ragazza. L'Italia è diventata un paese di puttane e usurai, criminali ed evasori, speculatori, nani miseri, tangentari, concussi e concussori. E tutto finisce sempre in cavalleria. Gli onesti pagano, la gente comune non arriva alla terza settimana e questi stronzi, bauscia, ridono quando la terra trema. Grassi affari con l'Abruzzo.
So che c'è ancora tanta gente per bene in Italia. Ma al governo ci sono loro. E hanno pure impestato l'opposizione. La prima Repubblica ci aveva abituato a tangentisti e delinquenti di partito tutto sommato dignitosi. Questi mercanteggiano anche "la figa".
E il Vaticano zitto. Si lagna ogni tanto, quando si supera palesemente la misura. Ma le porcate come quelle dell'affaire Boffo le lascia passare. Fino a quando però non vanno a pestare i calli ai vari Tarcisio Bertone, ai giannizzeri vaticani del cavaliere, collusi manovratori. Che pur sempre porporati sono, e che cacchio.
Eccola, l'Italia che voleva Licio Gelli. Non i carriarmati, ma i culi in tv hanno sfondato la linea democratica della correttezza e dell'etica politica, costituzionale e della decenza. Questo è il paese dove il responsabile della Protezione Civile va a troie, dirige mazzette, o è così coglione da lasciarsi passare sotto il naso gli accordi sotto banco, le commesse, gli appalti delle zone disastrate. E pontifica sugli aiuti statunitensi ad Haiti, come fosse un commento di Mosca da Biscardi nel dopo partita. Arriva lui.
Questo è il paese dove Ubu re, non si accontenta più di difendersi con i poteri che gli conferisce la sua carica dai processi, ma che ai primi passi di un'inchiesta su un suo scherano, grida alla magistratura comunista. Che ha torto a prescindere. E rimette le dimissioni appena paventate da Bertolaso. E nel teatrino dei pupi Bertolaso a sua volta, da servo fedele e grato, dice che si dimetterà solo se il cavaliere lo chiede. Ci pigliano anche per il culo.
E gli stessi che difendono l'indifendibile, strillano alle dimissioni di Del Bono a Bologna. Come se fossimo sul pianeta papalla e non nello stesso agone. Del Bono ha fatto una cosa che in ogni paese civile, un amministratore responsabile fa: per difendersi dalle accuse, ma soprattutto per consentire una serena amministrazione della cosa pubblica, lascia l'incarico. Questo si fa. E non lo dico a sua lode. In altri paesi, ripeto, è un fatto normale.
Questo è il paese della risata perversa di chi ha il potere e se ne fotte del paese e dei cittadini.
Che tristezza...

sabato 13 febbraio 2010

CIALTRONE SARAI TU


Non so se De Luca, il candidato del centro-sinistra per la Campania abbia delle responsabilità per i fatti che la magistratura gli ha ascritto. Quello che vedo dalle sue dichiarazioni contro padre Alex Zanotelli, contro chi si oppone ai termovalorizzatori e le sue prese di posizioni a favore del nucleare, me lo fa giudicare inidoneo a ricoprire un ruolo in una qualsivoglia coalizione di centro-sinistra. Come persona, quello che vedo, è la sua arroganza, con quella pieghetta sghemba delle labbra da sberle in bocca.
Diciamolo, cialtrone sarà lui, ennesimo compagno di merende di D'Alema. Non padre Zanotelli. Come si permette De Luca, a insultare un uomo di fede che ha vissuto per anni e anni nell'inferno delle bidonville di Kinshasa? De Luca non ha aiutato neppure per un nanosecondo un solo bambino kenyota, come si permette questo burocrate arricchito, arrogante e prepotente? Vada a fare in culo. Se io fossi in Campania piuttosto voterei un'ameba, o butterei il mio voto nel cesso. Che differenza c'è tra lui e un berlusconiano? Ma perché noi a sinistra dobbiamo avere come punti di riferimento solo teste di cazzo?

martedì 2 febbraio 2010

CLASSE OPERAIA CAPUT MUNDI


Dicevano che gli operai erano una specie in vie di estinzione. Dinosauri di altre epoche, dispersi come residui socioculturali nei reticoli digitali di una società postmoderna multiforme. Ora eccoli qua, sui tetti, nelle piazze, sui binari delle ferrovie e sui raccordi autostradali, con la loro rabbia e impotenza.

Ma nessuno raccoglie la loro causa. Da “centro-sinistra” solo generici richiami a risolvere la questione del lavoro, ambigui perché nel concetto “lavoro” oggi ci sta di tutto e il contrario di tutto.


E allora chiariamo bene una questione di fondo che è sfuggita a tutti, o quasi. In questa società il diritto è dalla parte dei più forti, non solo come meccanismo reale dirimente i conflitti e le situazioni, ma come centralità della proprietà privata sul bene comune, sul diritto di una colletività e dei soggetti a una vita dignitosa e gioiosa.

Invece di scalare banche e trasformare le cooperative in capitale finanziario e  in consorterie di speculatori, la classe dirigente che proviene dal PCI farebbe bene a ripensare alla propria presenza politica nel paese. Se così facesse e lo facesse correttamente, l’unica conclusione a cui giungerebbe, sarebbe quella di andarsene a casa una volta per tutte.


Perché nella questione operaia ("quelli lì", come li chiama Bersani) c’è LA QUESTIONE. La questione della civiltà nelle società a capitalismo avanzato, nel terzo millennio. Siamo alla resa dei conti. Il pianeta, e con esso i suoi abitanti, è stato colonizzato, brutalizzato, messo in serio pericolo da una classe tentacolare di pescecani, banche, multinazionali, boiardi di stato, con la licenza di porre nel diritto e nella ragione, prima di ogni altra cosa, la proprietà privata, ossia l’alienazione dal bene comune di tutto ciò che può essere appropriabile: cioè esattamente tutto.

Così troviamo naturale, per esempio, elargire soldi alla Fiat sotto forma di incentivi, per consentirle di “fare dividendi” e di fare acquisti all’estero (vedi la Chrisler). Sono soldi dello stato, quindi nostri, dati senza contropartite, poiché si lascia che la Fiat stessa smantelli linee di produzione, licenzi, faccia i cazzi suoi in base ai suoi esclusivi interessi. Ed è di conseguenza naturale, tornare a dare incentivi, non perché questi provvedimenti vengano revocati, ma rimandati. Lo stesso stato che lascia un esercito di speculatori, le compagnie, prendere per il collo i cittadini che, come la Fiat, hanno preso soldi a prestito ma non possono ridarli indietro. Un peso e due misure, tra sfratti, pignoramenti, ufficiali giudiziari...


Per legittimare le ragioni del grande capitale industriale una volta si parlava di crisi. Oggi neanche più a questa. A un gruppo come la OMSA di Faenza, non si dice e non si fa nulla, se decide di lasciare a casa centinaia di lavoratrici per aprire uno stabilimento in Romania. Delle ricadute sociali sul territorio, sulla collettività, non si fa cenno. Le politiche industriali come queste creano costi alla collettività: cassa integrazione, servizi sociali di vario tipo, ma nessuno chiede conto a questi signori. Non certo lo stato che, anzi, continua a elargire. La storia del capitalismo italiano, cara Marcegaglia, non è storia di ricerca, innovazione, capitani d'impresa coraggiosi, ma storia di parassitismo, prebende, signoraggio, concessioni, come le autostrade a Benetton e pochi altri (e averle poi di merda). I cittadini italiani pagano i profitti del capitale industriale italiano e parano il culo agli apprendisti stregoni come Colaninno e Tronchetti Provera.

Ecco in pratica come si oggettiva il diritto della proprietà privata. Regalie, come la legge che obbliga a privatizzare l'acqua, così tanto caldeggiata anche da Bersani. È una ius primae noctis sul bene comune, sui proventi del fisco, sulla risorse collettive di un paese e di un pianeta.

La questione operaia non è cosa da poco. Diamo allora una rispolverata ai cervelli all’ammasso o pieni di accordicchi dei nostri Bersani, Fassino e D’Alema.


Gli operai, a differenza di altre categorie sociali come la borghesia depauperizzata dalla crisi e dai tassi d’interesse, dal credito al consumo e dai tagli alle spese sociali varie, hanno un ruolo nella produzione di beni. Così come il lavoro intellettuale (operai intellettuali) ha un ruolo nella produzione di cultura, di conoscenze scientifiche e di infomazione. Sono elemento della produzione sociale. Quest'ultima, che è di proprietà delle solite poche famiglie e delle società per azioni, deve divenire proprietà collettiva, se vogliamo salvare il salvabile. Gli operai devono farsi stato, attori decisionali di un bene così importante come la produzione. Nulla di nuovo, del resto. Tutto questo era un’ovvietà, non solo per Marx, ma per lo stesso Gramsci. Quelle che tre decenni fa potevano sembrare frasi fatte e dottrinarie di qualche gruppo marxista-leninista, con le dovute differenze analitiche da elaborare, oggi stanno diventando un doveroso programma di trasformazione sociale. Pena la distruzione della vita umana e del pianeta come li conosciamo, ad opera di ceti che hanno perso persino l'istinto di conservazione della specie.


Ora, per la disperazione, gli operai salgono sui tetti. Dovrebbero salire inveci sugli uffici alti della gestione industriale, prendere a pacche le think tank, gli ing., i dott., i cav. e farli lavorare a calci in culo per il bene comune e sotto la loro stretta direzione. Dovrebbero imparare da queste teste di cazzo quello che ancora non sanno fare, e buttarli in discarica come bambole rotte, o meglio operaizzarli: giù in officina, iniziando quella rotazione doverosa che è alla base di qualsiasi forma seria di socialismo.

Compresi i Bersani, i Fassino e i D’Alema.


Perché? Perché gli operai riscattando loro stessi, riscattano l’intera società in un’azione collettiva di riappropriazione del bene comune. Che non è solo l’acqua o l’eco-sistema, ma i mezzi che servono per riprodurre la società. Solo questa spinta collettiva socializzatrice può salvare il pianeta dalla distruzione. Affrancando dallo sfruttamento e dall’alienazione tutte le altre componenti sociali in pieno stato confusionale. Gli operai possono dare identità a chi non ce l’ha: sono il metro di misura, di definizione delle cose e dei rapporti. Sono il superamento dei tempi della produzione dedicata ai profitti e al funzionamento di un sistema contorto e suicida. Sono liberazione dell’individuo in quanto tale, attraverso la liberazione del lavoro dalle sue forme normate e nere di sfruttamento e di produzione di nocività fisca e psichica, soggettiva e ambientale. Un lavoro che diviene, così,  attività umana subordinata al piacere, al godimento, alla felicità, alla vita.

Gli operai: possono essere solo loro alla direzione di questo processo. Ora finalmente vediamo quanti sono, ma soprattutto vediamo la cifra, la qualità del loro essere sociale. Alle soglie della crisi di un'epoca, in cui le bolle speculative sono solo effetti scatenanti, riaffiorano i soggetti reali della trasformazione. Dopo un pugno d'anni di ubriacatura "post".


In stato embrionale, queste prime reazioni sono prove di conflittualità a cui va data una visione e un’autonomia di classe come agire conflittuale e creativo al tempo stesso.

Politico ed economico si ricompongono in una sola prassi, in una sola forza confliggente.

Oltre le liturgie della politica che celebra e riproduce se stessa come ceto parassita, oltre i riti dell’economia che si riduce a insulse azioni e progetti imbrigliati nei numeri di bilanci falsamente “oggettivi”.

Riaffiora la soggettività che ricompone una nuova metanarrazione sociale dalle mille narrazioni localistiche, parcellizzate e parziali. La classe operaia è soggetto sociale centrale.

Non "operaio massa", non "operaio sociale", non "forza lavoro manuale", non "forza lavoro intellettuale", ma tutto questo insieme, ricomposto nel nomadismo delle migrazioni e della precarizzazione. Delocalizzazione, precarizzazione, straniamento sociale e culturale, sono il brodo di cultura delle soggettività ricomponenti, il denominatore comune di un soggetto che diviene totalizzante nel suo essere sfaccettato, poliedrico.

Laddove il decentramento produttivo aveva generato scomposizione di classe, oggi, saltato questo modello, la frammentazione che genera alienazione e non più aristocrazia operaia, ceto produttivo, diviene il filo conduttore di un ritrovarsi sul territorio, nei villaggi del nord est come nei fortini delle fabbriche occupate, dei presidi permanenti, degli esodi collettivi rionali verso l'occupazione di spazi vitali dopo gli sfratti. Un'alienazione che genera identità.


Ma quali risposte a un sistema che va avanti da solo, al di là dei governi, come un applicativo programmato a rispondere solo in un modo?

Alle nuove soggettività non può e non deve fregare di meno del prodotto interno lordo, dei tassi d’interesse, del debito pubblico. I conti, i dare egli avere, sono solo simboli immateriali che esprimono solo il punto di vista di chi deve gestire i flussi di cassa, di danaro verso i titolari del signoraggio, gli attori della proprietà privata-alienante comprovata da titoli, future, bond, derivati, fondi e merda varia, puramente simbolica, ma tristemente reale nelle sue ricadute sociali.

Questa giungla di insensatezza monetaria è la tirannia dei “tecnici”, il falso pecunia non olet che ci porta al delirio, alla distruzione di esseri, culture, contesti ambientali.


I dare e gli avere che contano sono quelli che restituiscono il pianeta, le risorse, la ricchezza sociale, i mezzi per produrla e il modo di produrla all’intera comunità mondiale umana liberata. Questi sì che sono fisici, reali e concreti. Sono il vero diritto poiché rappresentano il punto di vista della sopravvivenza dell’eco-sitema e della vita in quanto tale. Non solo. Proprio per questo, sono etica allo stato puro. Questo passaggio rappresenta l’anello mancante alle "democrazie moderne". Il diritto alla vita è inconciliabile con la sua alienazione in favore di un diritto privato. Questo è il limite della democrazia vigente, o borghese. Se questo passaggio non verrà fatto, la civiltà umana tornerà indietro di millenni.

Non sappiamo se sarà vera la profezia di Einstein, che disse che la prossima guerra mondiale verrà combattuta con le pietre e i bastoni. O se avremo conflitti devastanti a macchie di leopardo, nuovi fascismi, fortilizi a difesa interna ed esterna di poche aree privilegiate, o disastri climatici e ambientali. Di sicuro c'è che qualcosa sta scricchiolando. Ed è un qualcosa che si chiama sistema-mondo, modo di produzione e riproduzione di relazioni sociali, con tutti i suoi gironi danteschi.


Ecco perché gli operai non possono lottare solo per un piatto di minestra. Il vaso di pandora si è aperto (il riferimento a Avatar è solo casuale...). La materialità della loro posizione nella società impone loro inevitabilmente di essere direzione sociale di nuove relazioni e modi di essere e rapportarsi con la natura. A loro attendono ben altre responsabilità storiche e sociali. Lo stanno imparando sulla loro pelle. Ma l’opera delle avanguardie, una volta resa chiara dagli scopi epocali, deve essere paziente, molto paziente.