lunedì 25 ottobre 2010

MARCHIONNE, E' LA FIAT A ESSERE UN PESO. PER I CITTADINI ITALIANI!



Ci voleva un intervistatore zerbino come Fazio per non replicare alle dichiarazioni di Sergio Marchionne sulla Fiat e l’Italia a Che tempo che fa di domenica sera.

Secondo Marchionne l’Italia, il cui stato (ossia, noi cittadini) ha finanziato l’azienda di cui lui è amministratore delegato da decenni, sarebbe un orpello. Non un solo euro di profitto dal belpaese. Un conto economico fatto da chi pensa che pecunia non olet e che la matematrica non è un’opinione. A quando Marchionne presidente del consiglio, a “fare le cose per bene” con la benedizione dei PD? Ah, prima c’è Montezemolo, a cui auguro di restare agli allori del cavallino e di lasciare la politica a chi ha un minimo di senso civile e di giustizia e non una visione della res publica come un autoveicolo da usare e gettare.

Allora a lui, ma in particolare al sciur Marchionne ricordiamo l’altra faccia della medaglia. Ricordiamo i soldi che la Fiat ha preso dalla collettività nazionale per mantenere una soglia di occupazione che non si traducesse in forti costi sociali per il paese. Per questo, se dovessimo considerare il rapporto costi/benefici per noi italiani, dovremmo mandare il procuratore fallimentare alla sede della consorteria Agnelli Elkan Gabetti, per esigere la restituzione di un investimento sociale che ha solo danneggiato il nostro paese.

Aree metropolitane ridotte al degrado per spostamenti di linee produttive, costi in servizi sociali, in sicurezza del territorio, in cassa integrazione.

E in effetti, non c’è bisogno di una rivoluzione socialista al prossimo cambio di governo favorevole ai lavoratori e ai cittadini più disagiati. Basterebbe applicare il corrente diritto “democratico liberale” per esigere il ritorno delle agevolazioni disattese, rapinate con il beneplacito di governi di destra e sinistra, delle prebende, degli incentivi, dei danari elargiti a un bel mucchio di grandi imprese nazionali e multinazionali, non ultimi i gestori per l’energia e la telefonia.

Basterebbe questo argomento per comprendere che se il potere economico resta nelle mani di poche famiglie rapaci, di cui gli azionisti Agnelli rappresentano gli appetiti più schifosi, il paese continuerà a essere saccheggiato da monopoli e cartelli che nulla hanno a che vedere con una “normale” economia di mercato (poi sul concetto “normale” ci torno, per chi pensa che ci può essere un mercato Paperopoli, dove il lattaio fa il lattaio e ha sempre gli stessi incassi), che valorizzi tutto mondo dell’impresa, a partire dalle piccole e medie aziende, senza agevolazioni, cordate, corruttele, senza politici di scuderia, senza amministratori, sempre gli stessi, su più tavoli, senza boiardi da stock option milionarie.

La realtà che esce dalla bocca di Marchionne è che l’arroganza del potere economico che rappresenta, ha raggiunto livelli di agibilità politica da autentico fascismo. E’ quella di un capitalismo parassitario che ha ridotto il paese in suo feudo, complice il potere politico e le finanze più o meno “creative” dei vari Tremonti e Visco. Un sistema blindato, fatto solo per le lobbies che fanno il bello e cattivo tempo da decenni. Altro che mercato. Un comunismo per pochi, con la differenza che Kim Sun in Corea del Nord è perfettamente riconoscibile.

Per capire chi comanda, basta solo vedere la geografia dei media, chi influenza l’opinione pubblica dalle tv e dai giornali.

Di fronte a questo sfascio, in cui contano solo i recuperi di Equitalia su una moltidudine di dannati dell’INPS per finanziare le crociate e le crociere di Riccardo, restano disattese le domande di Rinaldini alla Fiat: quale politica industriale, a fronte di tutti i soldi sborsati dai noi contribuenti? Come mai un operaio tedesco della Wolkswagen guadagna molto di più di un operaio italiano, ha diritti sul lavoro e qui il problema è quello del costo del lavoro? E una domanda anche al governo e a quella parte della pseudo-opposizione, Veltroni, Casini, Rutelli, ecc. che sostiene le ragioni dello smantellamento dei diritti dei lavoratori e che sostiene le posizioni vergognose di CISL e UIL (giuro non ho con me uova...): quale è il vantaggio che si acquisirà con il nuovo corso confindustriale, di cui Fabbrica Italia è stata la testa di ponte?

Al di là del pericolo piduista di Berlusconi, l’autoritarismo ha le gambe molto, molto più lunghe.

La questione vera è che non può esistere democrazia politica senza democrazia economica, senza soggetti economici che riconoscano non slo diritti, ma anche doveri, ossia responsabilità civili in materia di economia.

Quindi il punto non è solo di riequilibrare l’economia fermando l’egemonia neoliberista nella gestione dell’economia stessa e della politica finanziaria e fiscale del governo.

Il punto è che occorre ripartire da un’economia dove il mercato è fortemente regolato nell’interesse generale, nella redistribuzione della ricchezza sociale, nella gestione statale dei settori chiave e delle risorse vitali del paese, nella sovranità delle comunità locali nelle scelte gestionali riguardanti i territori di appartenenza (la vicenda di Terzigno ne è un esempio scottante). Il punto è che non si può non introdurre elementi di socialismo nelle politiche economiche, piazzando dei bei paletti alla voracità di consorterie che dal dopoguerra ad oggi, prima con la Dc poi con la “seconda repubblica” hanno imperversato deprendando il risparmio dei cittadini, creando cartelli, ridicendo il mercato del lavoro a un biafra della precarizzazione, attaccando sempre di più diritti e tutele che fanno la differenza tra un paese civile, evoluto, da un paese dove vige la legge del più forte.


Ma tutto questo, non può svilupparsi finché i “riformisti” d’ogni risma, di provenienza PCI o democristiana, pensano che basti un’oligarchia di tecnici illuminati, dei menenio agrippa de noantri, per risistemare le cose, magari mettendo il pattume sotto il tappeto e imbellettando la merda dei privilegi con qualche liberalizzazione bersaniana qualche settore sin’ora appaltato dalle corporazioni di sempre.

Significa ripartire da Pomigliano, ossia dalla forza politica e contrattuale, dal potere di base dei lavoratori e del mondo del precariato e del disagio sociale. Si tratta di ripartire da un soggetto che in sé racchiude l’interesse a ribaltare questi rapporti di forza, al di là di un ventennio di frammentazione e di perdita di identità collettiva.


Si tratta di vedere la questione democratica che oggi attanaglia il paese con il golpismo strisciante in atto, al di là del berlusconismo stesso. Perché prima, durante e dopo Berlusconi, s’intravede, e va visto sempre, il grigio volto d’un potere capitalistico che non ha mai concesso nulla, che ha sempre oscillato tra rumori di sciabola di atlantica memoria e “patti sociali”, che non erano patti, ma accordi di bottega con il più forte e venduto partito comunista dell’occidente.

E la questione democratica è la questione economica, la questione del lavoro, del modo in cui le persone riproducono la propria esistenza ogni giorno, centrale persino rispetto allo strapotere mediatico, alla dittatura di una politica asservita ai poteri forti e corrotta, che ne è una conseguenza e non la causa.

Struttura e sovrastruttura s’intrecciano, certo. E la sovrastruttura è molto potente, incide sui tempi stessi delle contraddizioni del capitalismo, sulla crisi. Ma comprendere dov’è il cuore delle contraddizioni del capitalismo stesso è cosa importante ed essenziale per qualsiasi prassi antagonistica e progetto di trasformazione sociale dell’esistente.


Saldare i movimenti del lavoro salariato, dipendente e precario, con i ceti medi ormai polverizzati nell’identità, nelle vecchie certezze, nell’uscita dal mondo del reddito e delle rendite garantite, unire le lotte del mondo del lavoro (che è anche quello dell’istruzione) alle lotte di comunità e di territorio sulle più diverse tematiche, ma tutte riassumibili nella questione della sovranità popolare sugli interessi privati di pochi e potenti pescecani. Questo è l’imperativo attuale.


Solo la classe operaia, può essere l’elemento riunificatore di questi fuochi di conflitto sociale. Perché il cuore di tutta la questione epocale è ancora una volta, e come sempre, il modo di produrre e riprodurre l’esistenza sociale delle persone, della società tutta.

Marchionne, Marcegaglia, Bonanni, non è finita la lotta di classe, ve ne acccorgerete. Ce n’est qu’un debut (continuons le combat).


martedì 19 ottobre 2010

QUELLO CHE SI DOVREBBE FARE SULL'AFGHANISTAN IN UN BELL'EDITORALE DA LIBERAZIONE.



Afghanistan: una proposta contro l’imbroglio demagogico.
Noi proponiamo il ritiro unilaterale delle truppe italiane, la fine della guerra della Nato, un cessate il fuoco e un negoziato politico interno e internazionale (con il concorso del Pakistan e dell’Iran) garantiti dal presidio del territorio da parte di una forza di Caschi Blu (con l’esclusione dei paesi attualmente belligeranti). Altre “soluzioni” sono semplicemente la prosecuzione della guerra o, peggio ancora, l’ennesimo imbroglio demagogico, cinicamente giocato sulla pelle degli afghani e degli stessi soldati italiani. Il governo italiano, se avesse una propria politica estera, dovrebbe proporre in sede Nato il ritiro e l’apertura di una nuova fase gestita dall’Onu, dai paesi dell’area e dai belligeranti afghani. Ma una simile proposta, per quanto sia l’unica pragmatica e realistica, si scontrerebbe con la vera natura della guerra e con i suoi veri obiettivi (che non sono cambiati solo perché dall’unilaterale “Enduring Freedom” siamo passati al “multilateralismo occidentale” della Nato), e contro gli interessi dell’industria bellica Usa. Quindi il governo italiano dovrebbe ritirare unilateralmente le proprie truppe, seguendo l’esempio olandese, proprio per esercitare l’unica pressione seria e possibile in sede Nato e verso gli Usa, al fine di mettere fine ad una guerra che mai potrà essere vinta sul piano militare. L’opposizione (parlamentare), se avesse una propria politica estera diversa da quella degli Usa e quindi diversa da quella del governo Berlusconi, presenterebbe immediatamente una mozione in Parlamento per il ritiro unilaterale, sia per mettersi in sintonia con l’opinione pubblica sia per sfruttare le evidenti contraddizioni fra Lega e Pdl. Ma non lo farà. Continuerà a vagheggiare “ridiscussioni della missione”, non meglio precisate “exit strategy” senza proporre nulla di concreto e così via. Finirà inevitabilmente con il discutere, anche dividendosi, delle false piste proposte dal governo (come quella di La Russa sulle bombe), utili solo a rappresentare, nella politica spettacolo, come unica dialettica possibile quella interna ai favorevoli alla guerra, e a far apparire come estremistica, irrealistica e velleitaria qualsiasi idea o proposta che sia contraria alla guerra come soluzione del problema afghano. Noi abbiamo mille ragioni per essere contro questa guerra. Sono politiche ed anche etiche. La principale delle quali è che siamo contro la costruzione di un nuovo ordine mondiale, conseguente alla globalizzazione capitalistica, nel quale i paesi “occidentali” dominano e “governano” il mondo sconvolto dalla crisi, attraverso la “guerra permanente” e la riduzione dell’Onu ad “ente inutile”. Perciò siamo contro la Nato e contro il governo Usa. Perciò pensiamo che su questo punto corra un confine fra ciò che è di sinistra e ciò che è di destra. Il resto sono chiacchiere e pagliacciate buone solo per i talk show.
Ramon Mantovani in data:11/10/2010

domenica 17 ottobre 2010

LA FIOM E' IL PARTITO DEI LAVORATORI? SEMBRA DI SI'...


Bersani commenta che la piazza di ieri "va ascoltata" e aggiunge con non poca ambiguita che devono esserci "posizioni comuni dal mondo del lavoro". Il PD, si sa, non ha aderito allo sciopero della FIOM: c'erano solo alcuni esponenti. Lo stesso Cofferati, che c'era, trova giusto che il PD non abbia aderito e che ogni partito abbia una sua politica del lavoro.
In altri tempi, fino al periodo dei DS, nonostante una politica già annacquata, era una necessità per gli eredi del PCI rappresentare i lavoratori insieme al sindacato più rappresentativo. Oggi, il PD non ha più queste velleità. Anzi, al suo interno c'è chi la pensa molto diversamente. C'è chi preferisce inciuci con l'UDC di Casini, che sostiene che chi era in quella piazza ieri, non è interno a un'ipotesi "riformatrice".

Il resto è una presenza di partiti da Idv a Rifondazione, PCdL, ecc., che hanno poca incidenza sulla piazza. Rifondazione un po' di più, per tradizione politica e per peso specifico. Ma diciamolo: il vero partito dei lavoratori oggi, è un sindacato, e neanche tutto: la CGIL e la FIOM in particolare. Il discorso di Landini ha spaziato a tutto campo, toccando tematiche meno legate al lavoro, come la presenza delle truppe italiane in Afghanistan, ha parlato di alternativa economico-sociale, che è il cuore della questione politica, anche nei suoi aspetti più costituzionali. Ha parlato di attacco alla democrazia, legandolo all'attacco ai diritti. E' stato il discorso di un leader politico, non sindacale. Su questo Bonanni ha ragione, ma è la ragione del porco che si rivolta nel suo fango, quello della svendita della democrazia economica e sociale e dei diritti del lavoro.

Quello di Landini è stato un discorso che qualsiasi leader di una sinistra europea coerente, espressione di quelle parti di società più disagiate, discriminate e sfruttate, farebbe e fa nei paesi civili come la Francia, la Germania, la Spagna.
Questo fatto però, non deve rallegrare. Perché l'assenza degli eredi della tradizione comunista, del più grande partito comunista europeo occidentale, che era in Italia, è un'assenza assordante, perché non c'è nessuno a raccogliere oggi quella bandiera.
E' l'assenza di un soggetto politico che non può essere sostituito da alcuna forza attuale della sinistra. Che lo si voglia o meno. Che si abbia o meno criticato (e io l'ho fatto e lo rivendico) il PCI per le sue politiche di compromesso storico con la DC, di "sacrifici" negli anni '70. Perché che lo si voglia o meno, quello era il partito della classe operaia. Poi sul quando abbia smesso di esserlo, occorre farci su una bella analisi, perché le fasi politiche non sono così schematiche. Ma così è stato.

Pertanto, oggi abbiamo una classe operaia e un mondo del lavoro salariato più in generale, che non ha alcuna forza politica rappresentativa, ma neppure un fronte di forze, ossia un'entità politica coesa, che si ritrova su un progetto unitario, su una piattaforma programmatica comune. Questo è grave. Questo inevitabilmente ha delle ricadute politiche nella fisiologia delle lotte sociali che, anche per questo, e non solo per una frammentazione della composizione di classe in mille soggettività del lavoro e nel territorio, sconta una mancanza di unità organica, di ricomposizione dei soggetti, di un'autonomia di classe dalle politiche egemoni di governo e dei partiti politici che amministrano la cosa pubblica anche a livello locale.

La storia insegna che i movimenti operai e di classe, le sinistre, vincono quando esiste una vasta unità delle forze sociali in movimento sotto l'egida un soggetto politico. Non quando permane un residualità fatta di piccole rendite di posizione, di politiche personalistiche, di piccoli gruppi dirigenti che si autoproclamano avanguardie, di mentalità burocratiche che campano su antichi dogmi.

La FIOM, e più in generale i lavoratori e le forze sociali che ieri erano in piazza, hanno espresso tutto il nuovo che oggi si affaccia sulla scena sociale: le nuove forme di organizzazione operaia, di solidarietà sindacale e sociale, il mondo giovanile in fermento, tutta l'intellettualità "organica" alle nuove forme di resistenza sociale all'attacco che Confindustria, poteri forti e governo portano avanti contro i diritti e la democrazia reale.
Ma non è una condizione sufficiente allo sviluppo di un'alternativa politico-sociale. Quello che manca è il soggetto politico, è il "moderno principe" per dirla alla Gramsci, che è ancora lontano a venire per l'ignavia di una sinistra storica o "nuova" che sia che ha già fin troppo sacrificato sull'altare del politicantismo autoreferenziale, quello che invece dovrebbe essere un lavoro politico dal basso, di inchiesta operaia e autorganizzazione. Perchè la rappresentanza, non è quella che registri come tale dal tesseramento, o periodicamente dal voto legislativo o amministrativo. Ma è il prodotto di un lavoro politico dal basso, di internità alle lotte.
Di una metodologia politica, di una prassi che coincide con i contenuti di una visione democratica della società in divenire, con le sue contraddizioni epocali e con le sue potenzialità.

Oggi questo metodo lo ha paradossalmente un sindacato, il più confliggente che oggi abbiamo in Italia (se escludiamo forme di rappresentanza di base lodevoli, ma spesso poco incidenti sulla scena politica). Ma è un metodo che i comunisti in primo luogo devono tornare a far proprio. Così come il mondo di una sinistra "verde", di un socialismo democratico coerente e post DS. Senza più delegarlo alla spontaneità e alle organizzazioni sindacali.
Nel '43 gli scioperi i fabbrica erano frutto di un lavoro politico del partito. Senza voler fare inattendibili parallelismi storici, il metodo però resta.

Ma oltre al metodo, è ora di tornare a parlare di un progetto forte. Parlare di socialismo non è utopia, ma è ribadire che solo cambiando il modo di produrre, consumare, esistere socialmente, con tutta la sua gerarchia di valori osceni, è possibile garantire un futuro ai nostri figli. Perché il socialismo, ossia la gestione da parte di un'entità collettiva organizzata delle risorse di un paese, di un sistema economico-sociale e di un pianeta: il nostro, che ponga dei paletti alle possibilità individuali e private di incidere su tutta la collettività, che ponga regole non emendabili dalla prima forza politica che sale al governo e che sono regole a tutela della collettività stessa (poi viene tutto il pluralismo che si vuole), non solo è possibile ma è necessario e urgente se non vogliamo compiere gli ultimi passi verso la fine della nostra civiltà.

Non è un progetto da mettere in una teca e da "suonare" come l'Internazionale quando si fa qualche festa o si conclude qualche congresso, ma deve vivere giorno per giorno nell'attività politica, nelle scelte, nelle lunghe e inevitabili mediazioni d'alleanza. Disattendere a un percorso unitario della sinistra, limitarsi a fare atto di presenza alle sfilate sindacali, mantenere questa mentalità autoreferenziale significa esattamente allontanarsi da questo progetto, indipendentemente dalla posizione politica che si assume.
Diamoci da fare, compagni.

sabato 16 ottobre 2010

SCIOPERO GENERALE!


Prepararlo nelle diverse categorie del lavoro, organizzarlo dall'industria al terziario, dalla scuola all'università, dai migranti ai precari.
Occorre dare forma al ciclo di lotte che attraversa anche l'Italia. Oggi la CGIL rappresenta non solo la voce sindacale più rappresentativa nella difesa dei diritti del lavoro e della democrazia, ma anche una vera e propria voce politica di quella parte della società civile che si oppone a questo attacco neoautoritario di vaste proporzioni.
Lo sciopero generale è un passaggio obbligato, che va orientato nella direzione della nascita di un nuovo soggetto politico complessivo.

ALLOSANFALCE E MARTELLO.



A chi sosteneva con teorie tipo “società dei due terzi”, la fine dei movimenti operai come movimenti antisistemici, la fine del socialismo come formazione economico-sociale oltre la società di mercato e il capitalismo, dovrebbe ricredersi.

La crisi di sistema in cui è entrato il capitalismo come sistema-mondo, riporta al protagonismo politico le forze sociali del salario, i lavoratori e quello che può essere definito proletariato anche nel centro dell’imperialismo, nelle società a capitalismo avanzato. E’ una crisi profonda che come una forbice divarica le differenze sociali, annienta la piccola e media borghesia nella sua composizione sociale, che riempie le mense della Caritas, che precarizza senza proletarizzare (salarizzare, ossia gli strati sociali medi non entrano nel processo produttivo, nel mondo del lavoro).


In poche parole, l’immane trasferimento finanziario nelle poche mani di abili broker, che rende alla stregua di normali imprese private soggette a fallimento interi stati (vedi il caso della Grecia), non ha fatto altro che accelerare le contraddizioni fisiologiche del capitalismo stesso, a partire dalla caduta tendenziale del saggio di profitto e della riduzione del capitale variabile.

Aperto un inciso: attenzione a non ricadere nelle visioni meccanicistiche del bordighismo. Abbiamo capito come la soprastruttura capitalistica sia in grado di mettere in opera contromisure, come una sorta di anticorpi. Nel concetto gramsciano di egemonia culturale e blocco storico c’è tutto il necessaire per comprendere ed operare. Chiuso l’inciso.


Le imprenditorie forti trasferiscono le produzioni nelle aree del mondo meno o per nulla sindacalizzate e depauperano gli stessi mercati in cui operano, quelli occidentali, statunitense ed europeo in primo luogo, dove i forti debiti pubblici fanno saltare sempre di più i meccanismi di protezione sociale dei welfare. La fine del keyneismo.

Quindi, fine dei pipponi alla Darendhorf.


In questo scenario, abbiamo visto forze sociali del lavoro e giovanili, in Grecia, contrastare le misure draconiane imposte dal FMI per “salvare” il paese. Una prima avvisaglia positiva, ma inevitabile date le condizioni economiche disperate elleniche.

Ma assistiamo anche a lotte forti e vaste del mondo del lavoro, dall’industria al terziario, a quelle giovanili e studentesche, in un paese come la Francia, non ascrivibile nell’area PIIGS in Europa. Una risposta tuttavia poderosa alla “riforma pensionistica” del governo Sarkozy, che ci fa delineare un nuovo corso in tutto l’antico continente.


Più della Grecia, più della Spagna, la Francia fa da apripista al nuovo ciclo di lotte sociali che si va prefigurando e che investe anche le aree di capitalismo avanzato e i poli economici più evoluti e a maggiore concentrazione di attività industriali e terziarie.

La questione si pone a più livelli, paese per paese: da classi sociali indisponibili a perdere la qualità della vita garantita dai precedenti dettami previdenziali (Francia), a classi sociali che hanno ormai poco o nulla da perdere e se la giocano con la forza della disperazione (Grecia). La saldatura transeuropea è solo questione di mesi, perché comunque il comune denominatore nelle società occidentali, la crisi economica e l'attacco ai diritti del lavoro, la desertificazione di interi poli economici, l'indigenza diffusa, pervadono anche le ricche metropoli del centro-nord Europa.


In questo scenario, emergono tutti i limiti delle politiche messe in opera dalle socialdemocrazie quando queste sono al governo. Papandreu, Zapatero in primis, stanno a dimostrare, che al dunque, i costi delle emergenze vengono presentati alle fasce sociali più deboli, a vantaggio del capitale finanziario, i cd “investitori”, il nulla significante del “far quadrare bilanci”.


Diviene dunque possibile concretizzare una rinnovata unità di classe internazionale europea, tra ceti popolari e del mondo del lavoro che inevitabilmente produrrà contraddizioni anche nel campo del socialismo istituzionale e delle socialdemocrazie. Avere chiaro questo, significa orientare il lavoro politico della sinistra anticapitalista alla ricostruzione di fronti di lotta vasti, tra forze politiche. Già la crisi e le lotte sociali in Spagna hanno fatto perdere le primarie del PSOE a Zapatero. Per cui è possibile prefigurare nuovi schieramenti a sinistra, dove però i comunisti devono fare da espressione diretta della parti più mature politicamente dei movimenti operai e sociali e al tempo stesso da collante, da pontieri riguardo le sinistre delle socialdemocrazie.


La manifestazione di oggi a Roma la dice lunga su come il PD non abbia alcuna iniziativa politica sul tema e proceda in ordine sparso. I tempi per un nuovo soggetto politico, di un moderno principe che sposti avanti il conflitto sociale, la critica culturale e l'azione politica sono maturi. Molto Maturi.



venerdì 15 ottobre 2010

UN PESO E DUE MISURE.



Notare le diverse misure nel peso dell’ordine pubblico. Genova, Marassi, 12 ottobre 2010: gruppi di nazionalisti serbi organizzati entrano nello stadio con fumogeni, cesoie, bastoni e quant’altro, mentre la polizia sequestra i succhi di frutta a bambini di 5 anni accompagnati dai genitori. La tifoseria neonazista serba interromperà la partita con disordini e lanci di fumogeni e metterà poi a ferro e fuoco il centro della città esattamente come i black bloks nel G8 del 2000.

Due giorni dopo Maroni dice di essere stato avvisato dai servizi segreti: gruppi esteri si infileranno nella manifestazione della FIOM di sabato 16 per provocare disordini e guerriglia.

Una polizia e dei carabinieri incapaci di gestire la piazza nei confronti di tifoserie che andrebbero stroncate senza se e senza ma, dalle dichiarazioni del ministro degli interni, si rapporteranno con una manifestazione pacifica e di massa in modo ben diverso.


È evidente che qualsiasi cosa potrà accadere domani a Roma, si cercherà di far cadere la responsabilità su quelle forze di opposizione che manifestano. Si dirà che il loro manifestare è causa di tensioni sociali violente. Ci stanno già provando da giorni stigmatizzando le scritte e le uova contro le sedi CISL. Ogni possibilità di criminalizzare il movimento operaio e le sue espressioni più conflittuali viene messa già in campo con dovizia.

Ma quello che "sfugge" alle forze di governo è che la responsabilità di questa situazione, di queste tensioni è solo di chi governa. È di chi nulla sta facendo per contrastare i livelli di disoccupazione e disperazione sociale ormai raggiunti. La piazza non è un’entità astratta, che si muove per provocazioni preordinate. È il termometro di un disagio sociale che sta crescendo sempre di più.

E se scontro sociale sarà, stavolta occorre reagire a qualsiasi lettura eversiva della questione sociale. Eversione è occupare con arroganza lo stato, i ministeri, per fare leggi a proprio uso e consumo, lasciando il paese e i settori sociali più colpiti dalla crisi al proprio destino.

Eversivo è l’attacco sistematico ai diritti dei lavoratori e allo statuto, è la precarizzazione selvaggia dei rapporti contrattuali.


È venuta l’ora di dire che un patto sociale, e quindi una normale convivenza civile, possono reggersi solo se le forze politiche s’adoprano per redistribuire gli oneri di questa stretta economica a partire dai settori sociali più agiati, con meccanismi di protezione economico-sociale verso chi subisce il peso della crisi e scivola verso la povertà.

E invece siamo in balìa di predoni eversivi che pur di rastrellare capitali per sé, per le consorterie finanziarie e industriali che rappresentano, non esitano a fare terra bruciata in ogni ambito dell’economia.

Così non c'è alcun patto sociale: c'è la legge del più forte, che per forza farà pagare dei costi alla società anche sui livelli di convivenza civile e di democrazia.


Un peso e due misure nel trattare l’ordine pubblico, così come un peso e due misure nell’affrontare la congiuntura, che di fatto è crisi sistemica del capitalismo.

Tutto questo è ormai intollerabile per gran parte della popolazione. E lo è ancora di più per quella parte di società civile che si riconosce nei valori dello stato e della Costituzione. L’eversione, a differenza delle lotte sociali degli anni ’70, non è più dalla parte di chi si pone su un piano di difese delle condizioni di vita delle classi popolari.

Ora abbiamo davanti una società civile che chiede più diritti, più tutele, più democrazia, meno politica sporca e affaristica, meno presenza delle mafie nel territorio, più partecipazione popolare alla vita politica del paese.


Tragicamente però, non c'è alcuna sponda politica sana, nessuno che tracci un'alternativa politica e sociale, economica e culturale seria a questo stato di cose.

La crisi del PD ha come concausa la caduta di credibilità che questa classe dirigente dimostra nel proporsi come opposizione al governo. Perché la sua politica è incongruente e ambigua. Non è una politica di classe.

martedì 12 ottobre 2010

L'OSCURAMENTO E LA QUESTIONE NON PIU' RINVIABILE.


Esiste una parte della popolazione completamente oscurata dai mezzi d'informazione. C'è in altre parole un popolo di sinistra contrario alla guerra in Afghanistan, che ha ben chiaro l'attacco che le borghesie dominanti stanno portando ai diritti del lavoro, a partire dalla politica Fiat a Melfi e a Pomigiano e alle scelte di Confindustria sui contratti. Consapevole dei forti rischi per la democrazia (o per quello che rimane della medesima...) che la permanenza di Berlusconi al governo comporta. Che vede con chiarezza a cosa stanno portando i tagli della Gelmini all'istruzione e la totale assenza di una politica economica di contrasto alla caduta verticale dei livelli occupazionali e la politica economica di estensione della precarietà occupazionale e dell'assenza di diritti a tutto il mondo del lavoro.
A tutto questo il centro-sinistra non dà risposte coerenti, non fa opposizione. Nella maggioranza dei casi si unisce agli interessi forti nazionali e internazionali nel gestire l'occupazione militare in medio Oriente e in Afghanistan, spaccia gli interessi peculiari di una classe capitalistica nostrana, parassitaria e collusa coi poteri finanziari più sordidi, come interessi nazionali del paese, come punto di vista di tutta l'imprenditoria.
Ma comunque, contribuisce all'oscuramento di quella parte di sinistra che sul fatto che sia minoritaria è tutto da discutere.

La questione politica fondamentale è questa. Perché è sul rilancio di una sinistra organizzata forte, che ricostruisce un tessuto connettivo e ritesse i fili di un'organizzazione dal basso proprio a ripartire dalle lotte e dalle mobilitazioni dei lavoratori, del pacifismo, dei cittadini che contrastano la grande rapina delle risorse pubbliche come l'acqua, che si oppongono alla fine della scuola di massa, che si oppongono alle mafie sul territorio, che si gioca la partita vera. La nascita di un soggetto politico autonomo che incarni tutte le espressioni particolari e locali di un'opposizione diffusa a questo sistema di gestione del potere, dell'economia, della società, è un passaggio non più rinviabile e tanto meno sacrificabile sull'altare dei piccoli stati maggiori che sopravvivono su antichi allori.

Il fenomeno del grillismo è fin troppo eloquente e deve far ragionare forze politiche della sinistra come Rifondazione Comunista. Non è più tempo di critiche manichee censorie contro chi si muove, contro pezzi della società civile e del lavoro, da chiunque siano organizzato o da chiunque trovino orientamento politico. In questa pratica si accomunerebbero al PD. E' un'arroganza che non ci possiamo più permettere. A livello sociale abbiamo una base di destra, forcaiola ben diffusa: la Lega al nord, che rischia di dilagare anche nella "rossa" Emilia, e spezzoni di estrema destra che con tematiche populistiche trovano facile terreno di coltura. Un fenomeno che coinvolge tutta l'Europa e che il più delle volte segna l'impotenza e l'ignavia delle sinistre socialdemocratiche.

Per questo occorre tornare a fare un lavoro "gramsciano", di presenza e orientamento politico anche solo su tematiche parziali, di inchiesta e aggregazione consiliare, in tutte le realtà che sorgono dal territorio, dal mondo del lavoro, dalle scuole e della università. Il moderno principe va ricostruito, di fronte allo scempio di un centro-sinistra completamente asservito alle regole dominanti del capitalismo selvaggio che domina gli scenari economico-sociali del nostro paese, del'Europa e dell'intero sistema-mondo.
L'attuale modo d'agire politico non basta più. Occorre un colpo di reni, una spinta nuova verso un'unità organica della sinistra anti-capitalistica, verso una visione unitaria di un blocco d'opposizione sociale che diventi soggetto visibile, ma al tempo stesso plurale, ossia che includa le più diverse sensibilità. Un lavoro che solo dei comunisti degni di questo nome possono e devono svolgere.
E' il Gramsci de l'Ordine Nuovo e dell'esperienza dei consigli operai torinesi, che va coniugato con la visione gramsciana più matura di sintesi (tutta italiana) del pensiero leniniano, di attività d'avanguardia per la realizzazione dell'egemonia politica e culturale delle classi popolari nella società. E' questo metodo che va rivalorizzato e riattualizzato nel presente contesto, per trovare nuove forme di organizzazione operaia e di classe, perché ogni percorso di lotta e di aggregazione trovi sedimentazione stabile nell'organizzazione di classe in tutte le sue situazioni ed espressioni particolari e locali.
E' un lavoro di ampliamento dei livelli di democrazia, di partecipazione popolare e di espressione di progettualità politica dal basso.
Il progetto politico è il prodotto di una prassi e di una nuova visione sociale del mondo che si crea in un processo critico e diffuso e non il parto meccanico di qualche cervellone.

sabato 9 ottobre 2010

ALTRI 4.


Altri quattro militari italiani sono morti a causa di un attacco talebano in Afghanistan. Io non mi accodo al coro di chi manifesta cordoglio peloso, di chi strumentalizza, di chi parla di vittime. Qui non si parla più di soldati mandati al fronte con leva obbligatoria. Qui si parla di militari di professione, pagati per essere là. Quindi, prima questione: se decidi di fare questo tipo di attività, devi mettere in conto di lasciarci la buccia. Punto.
Seconda questione: qui non si tratta di rivedere regole d'ingaggio, modalità di permanenza in quell'area, come sostengono i PD già in aria di campagna elettorale e con tutta la necessità di lisciare i pacifisti. Qui si tratta di ripudiare la guerra (perché di guerra si tratta, per gli interessi dell'Occidente) e di andarsene. Punto.
Finché non si capisce questo, finché si continua a concedere a una destra che ormai ha invaso culturalmente ogni interstizio del senso comune, finchè non si realizzano casematte politiche e culturali di una sinistra, per dirla alla Gramsci una filosofia della praxis, una concezione del mondo autonoma, sarà tutto inutile.
Alla destra non va concesso nulla. A La Russa che taccia di disfattisti chi parla di ritiro va detto: sei un fascista militarista di merda.
E detto per inciso, a me non fa paura la cultura talebana del burka, la combatto culturalmente, ma non sono così cretino da pensare a un'invasione. Soprattutto non la prendo come scusa, non strumentalizzo la donna afghana per imporre i miei interessi nell'area. Non mi spaventano le quattro bombe che due integralisti possono mettere in Occidente. Certo, occorre un'ottima azione d'intelligence. Ma nessuna scusante per chi continua a realzionarsi con le armi. Dalla guerra nella ex-Jugoslavia in poi è un rosario di sangue, bombe, uranio impoverito negli eco-sistemi, sulle popolazioni, tribunali dell'Aja a senso unico, in una politica tanto sanguinaria quanto demenziale che accomuna destre e "sinistre moderate".
Qui di moderato non c'è più nulla. Non c'è nei bombardamenti sui civili, nei morti per "fuoco amico". C'è solo delirio.

mercoledì 6 ottobre 2010

"PICCOLE" CENSURE, FASCISMO QUOTIDIANO.


I media non ne parlano, ma anche chi naviga in rete e legge notizie fuori dal mainstream, le legge come storie ordinarie. Parlo delle modalità in cui sistematicamente i "tutori dell'ordine" rimuovono cartelli e striscioni durante manifestazioni pubbliche. Esternazioni fatte da singoli cittadini o da aggregazioni di cittadini, che non vengono ritenute consone col carattere della manifestazione: Napolitano in visita, Berlusconi di passaggio, ecc. Con Ratzinger a Palermo, tra le solite varie, i tutori di cui prima, si sono permessi di entrare in una libreria dove era esposto un "I love Milingo" e di rimuoverlo.

In realtà, se consideriamo che la nostra Costituzione non solo ammette, ma favorisce la libertà di espressione dei cittadini, polizia e carabinieri dovrebbero al contrario consentirla, se civile e non violenta, se non scade in apologie di razzismo, terrorismo, ecc. se non costituisce insulto a capo di stato, e via dicendo. I poliziotti sono persino arrivati a sequestrare una bandiera italiana a margine di una manifestazione della Lega. Che paese è questo, dove la propria bandiera viene considerata come elemento di provocazione? Io non sono nazionalista, ma seguendo la logica dello stesso Napolitano, il Tricolore dovrebbe essere valorizzato e quindi essere presente in qualsiasi contesto pubblico.

La maggior parte di queste esternazioni non insultano e non minacciano nessuno. Sono solo scomode ai potenti del momento, ai personaggi della casta che usano i soldi nostri di contribuenti per utilizzare le nostre forze dell'ordine in funzione censoria e con un'arroganza arbitraria che vìola i principi stessi della Costituzione. Con i nostri soldi praticano lo squadrismo fascista. Perché come si può definire l'entrare in un negozio senza mandato, che ha tutto il diritto di esporre ciò che vuole e che non sia offensivo o illegale, se non un atto di squadrismo fascista?

Almeno nel fascismo l'inibizione di questi diritti era cosa chiara e riconosciuta da tutti. C'era una legalità fascista. Oggi invece, a parole e sulla carta costituzionale ti dicono che puoi esprimere le tue idee liberamente (liberamente significa in ogni contesto), ma ti negano la cosa in funzione della casta, che sia politica, industriale o finanziaria, o ancora mediatica.

E' anche da questi particolari, ai quali la cittadinanza obnibulata dalle vulgate propagandistiche di regime, dalle ville monegasche e dai culi delle veline (quella meno attenta è spesso resa all'oscuro di tutto) si è ormai assuefatta, che si vede come sia in atto un processo di fascistizzazione della società civile, del territorio, delle nostre piazze devastate delle loro speculazioni edilizie, dei nostri palazzi. Questa occupazione di potere nelle istituzioni, centrali e amministrative periferiche, questo esercizio arbitrario e arrogante del diritto del più forte, questo uso altrettanto arbitrario della polizia, è esercizio fascista del potere. Più nella versione Al Capone, visto che qui di prefetti di ferro (e di Borsellino ex FUAN saltato per aria) non ne abbiamo più, ma abbiamo tanta collusione dei politici con i poteri criminali e mafiosi.

E' un fascismo post-italiano, dove dentro ci sta tutto: il razzismo e le invenzioni padane della Lega, le spedizioni del PdL a convegni scomodi, l'ignavia complice di chi si arroga il diritto di essere "opposizione" e di fingere di fare genericamente i tuoi interessi. In realtà esiste un reticolo vergognoso e infame di scambi, favori, dove tutto quello che non riguarda il tanto sbandierato bipolarismo, può essere calpestato, ignorato, rimosso esattamente come i cartelli dei cittadini dissidenti.
E' il gesto brutale di chi si crede depositario della politica e ti dice che il tuo cartello, quello che sei tu, le tue idee non contano nulla. E' il Sordi del Marchese del Grillo: io so' io ... e voi nun siete un cazzo", in salsa destrorsa, legaiola o pseudo-democraticista.
E' l'ordinario lavoro che la casta fa di rimozione di tutto quello che ha il sapore di un'autonomia di pensiero da parte della popolazione allontanata dai luoghi della "politica vera". E questo è fascismo. Dei peggiori, perché non dichiarato, ma deliberatamente esercitato con dovizia e arroganza.
La storia insegna che tante "vuvuzuelas" per essere tali devono assordare. Che l'autonomia di pensiero, o meglio l'autonomia politica di soggetti e forze sociali che iniziano a muoversi, non può non fare i conti con la politica di regime, contendergliene gli spazi e i momenti di manifestazione sociale e politica. Oltre che ad avere momenti proprio di autocostruzione (è un rapporto dialettico tra questi due aspetti della praxis). Questo il regime tutto lo sa. Ed è per questo che l'atto di togliere uno striscione è un atto sì fascista, ma fascista in tutta la sua deliberata politicità.

Ed è per questo, che le forze dell'ordine sono state ancora una volta ridotte a sgherri di regime. Ma attenzione: questa volta non siamo più in presenza di un'estrema sinistra violenta nelle piazze, ma di cittadini, forze dichiaratamente democratiche e a difesa della Costituzione stessa.

La linea tendenziale è chiara: sbaragliato l'antagonismo sociale antistatale degli anni '70, ora la strada è ben spianata per inibire qualsiasi espressione di dissenso. Leggi: i gruppi dirigenti dei partiti della Prima Repubblica non difendevano lo stato, ma i privilegi di chi ne aveva la gestione.
Perché, come insegna Gramsci, sono i fenomeni sociali e le politiche che ne derivano che vanno letti con una visione ampia. I fatti non vanno presi in sé e circoscritti secondo un meccanicismo miope, antiscientifico e antistorico.

E ancora una volta il PD, come fece il PCI negli anni '70, si chiude il naso e non guarda più. Non guarda il timpano fracassato e le bruciature sulla pelle del brigatista Cesare di Lenardo, tanto per fare un esempio. Fa di più: crea teoremi, come il buon Calogero ha fatto sull'autonomia operaia. Oggi Bersani e soci, arricchiti dalla folta pattuglia post-democristiana, non cagano lo squadrismo poliziesco sul dissenso, e auspicano una sua funzione anti-Movimento 5 Stelle, anti-sindacalismo di base, ecc.

Si lamentano per qualche urlo e qualche cartello a una festa "democratica", strillando all'anti-democrazia. Ma la "democrazia" è solo la loro. Questo è il punto. Per questo, è auspicabile che una valanga di dissenso popolare si rovesci nei luoghi che loro hanno deputato attraverso la potenza dei media, a luoghi dove si fa la politica che conta.
E' come vedere un picchiatore con la mazza dei media tra le mani che pesta un poveraccio dotato di vuvuzuela. I primi ad essere anti-democratici sono proprio loro. Perché da Berlusconi a Veltroni, la paura è quella di rivedere un protagonismo politico di massa. Ecco perché vengono rimossi striscioni e cartelli scomodi. Chiaro, no?

Un'ultima parola, va spesa per fare un giusto accostamento ai regimi bananieri e del cosiddetto "socialismo reale", dove la pratica di attaccare i dissidenti era costante e fatta con scienza e coscienza. Mi pare che la logica del cartello tolto, dei dissidenti portati in questura per non aver fatto altro che manifestare delle idee, sia la stessa logica del breznevismo più rigoroso.
Alla faccia di chi ieri si sgolava l'ugola per parlare della liberticida URSS e oggi trova normale un siffatto atteggiamento di polizia e carabinieri nostrani. Anzi: le disposizioni sono sue o dei suoi amici.
A quando la Lubianka?