domenica 27 maggio 2012

I BASTARDI DEI MEDIA E I CRIMINALI DI GUERRA.

Vorrei far notare il peso e le due misure della nostra stampa su due eventi identici:

la strage di Hula in Siria
le bombe ISAF sui civili con strage di bambini in Afghanistan





Con una differenza: che se per la strage di bambini in Afghanistan sappiamo per certa la responsabilità della coalizione occidentale, per quella di Hula non sapppiamo se è coinvolto il regime siriano. Del resto, è politicamente strano che alla vigilia dell'arrivo di ONU e Lega Araba in Siria il regime di Bashar Assad compia un crimine di questa portata. Le fonti, come al solito, sono quelle dell'opposizione.


Per le stragi di civili in Afghanistan invece, gli occidentali possono contare su una stampa interna asservita, che informa ma sotto tono. Il governo degli Stati Uniti parla eplicitamente di rovesciamento di Assad, motivandolo con la condotta delle forze siriane sui civili, ma non altrettanto gli altri possono chiedere il rovesciamento di governi occidentali che usano la guerra per affermare il controllo strategico in aree come il Medio-Oriente. Da noi queste guerre si chiamano "Missioni umanitarie", ma causano la morte di civili quasi sempre innocenti.
Non c'è dubbio che nel mondo vi siano regimi totalitari e sanguinari, di varie ideologie e confessioni religiose. Il peggiore però è quello che sostiene la religione del dollaro. Stanno gettando nella miseria nera anche popoli che fino a oggi avevano goduto del benessere deterinato dall'essere al centro dei mercati, dell'orgia del consumo delle società occidentali metropolitane.
Lo stanno facendo con la guerra finanziaria che vede aggredita la zona Euro, per mantenere il baricentro dell'economia mondiale in occidente, a fronte dello sviluppo di economie giovani, cresciute nella delocalizzazione portata avanti dal capitale industriale e multinazionale occidentale, alimentate con il debito di paesi come USA. La Cina stessa possiede dollari, titoli, da comprare gran parte del "grande impero".
Lo stanno facendo con la guerra: grande dispositivo di comando sui popoli, di controllo dei flussi energetici come idrocarburo, gas, srumento di deterrenza verso altre potenze crescenti: Russia e Cina per prime.

Al Qaida, strumento funzionale a questo grande e tragico risiko, ai popoli del terzo mondo fa molto meno paura dei caccia che si levano in volo dalle portaerei o dalle basi militari ISAF e NATO.
Li abbiamo visti in azione in Libia, in Irak, in Afghanistan, in Serbia. Strumenti di morte legittimati dai media, da tutto l'apparato ideologico della religione del dollaro e del mercato.
E il brutto è che nella "sinistra" di oggi non si leva una voce contro. Anzi il Partito Democratico vota compatto al rifinanziamento delle missioni, il nostro Presidente delle Repubblica Napolitano si mette l'elmetto e lo spaccia per il berretto dell'esercito della salvezza.

Questa grande menzogna deve finire. E' una questione ben presente nell'agenda dei movimenti occupy. Pacifismo e lotta contro il neoliberismo sono le due facce della stessa medaglia, della stessa lotta di liberazione dalla degenerazione devastante e criminale del capitalismo. Se non disattiviamo il mostro con la lotta, con le accampate, con i boicottaggi, persino con gli atti di sabotaggio contro le macchine della guerra e le loro logistiche, quelle che passano per i nostri snodi ferroviari, se non facciamo tutto questo, saremo responsabili indifferenti, struzzi, anche noi davanti all'involuzione del sistema mondo all'autodistruzione delle comunità e alla guerra permanente.

mercoledì 16 maggio 2012

NON IN NOSTRO NOME.



Il ferimento del dirigente dell'Ansaldo Adinolfi a Genova ad opera del Fronte Anarchico Informale e i proclami dei neo-brigatisti durante il loro processo, ripropongono antichi schemi: da una parte loro, le "avanguardie" che hanno capito tutto e che vedono solo nella lotta armata la possibilità di una rivoluzione sociale e, dall'altra, le masse, i movimenti che per crescere nel loro antagonismo devono aderire a questa modalità di lotta.
Indubbiamente la situazione è favorevole perché qualcuno, nel nome delle lotte sociali, per il comunismo o l'anarchia, ricominci lo stesso tragico tormentone che negli anni '70 portò alla sconfitta il movimento antagonista e che aprì la strada a un riflusso della lotta di classe in Italia.
Dicono che la mamma dei cretini sia sempre incinta ed evidentemente è vero.

La risposta non può che essere: grazie no, è un film già visto e che abbiamo già pagato con costi umani molto alti, con la devastazione di intere generazioni di compagni, con l'avvitamento di uno dei più avanzati movimenti autonomi organizzati e diffusi sul territorio e nelle fabbriche.

Un no alla lotta armata con due distinguo molto chiari.

Uno.
Il rifiuto della lotta armata che pongo, non è nel solco della "lotta al terrorismo". Chi agita lo spettro del terrorismo è proprio chi intende colpire l'opposizione sociale. E non è un caso che il ministro degli interni Cancellieri, abbia subito puntato il dito contro il movimento No Tav, accusandolo di essere l'origine di ogni male, il brodo di coltura del nuovo "terrorismo".
Giù le mani dai movimenti e dall'antagonismo sociale!
La repressione statale del regime capitalistico si è sempre alimentata di utili idioti per svolgere il suo vero compito: arrestare le lotte sociali. E se non ce n'erano, se li creava. Alimentava il clima di emergenza terroristica come oggi, che di emergenza lotta armata non si può certo parlare.
La lotta armata negli anni '70 era un fenomeno di radicalità sovversiva diffusa, di massa. Oggi l'antagonismo si esprime su altri terreni. Le dominanti sono l'autorganizzazione e le forme di lotta riappropriative di spazi, di ricchezza sociale. Talvolta anche con la violenza di piazza, certo. Ma che nulla ha a che vedere con non meglio identificabili progetti di sviluppo di organizzazioni armate e di strategie combattenti. 
La rivolta sociale è un'altra cosa: si può discutere sulle modalità in cui si manifesta. Certo non si può lavorare per inibirla. E la dialettica, anche aspra, tra soggettività antagoniste riguarda le soggettività in questione e i movimenti, punto.


Ma deve essere anche chiara una cosa: il denominatore comune di fondo degli attuali movimenti, sul carattere non militare ma sociale del conflitto, in pratiche riappropriative, immediatamente costituenti, di democrazia diretta e sovranità popolare dal basso espresse dai  nuovi movimenti (si veda gli indiñados spagnoli o Occupy USA), è sintomo di maturità politica dei soggetti. L'arretratezza semmai è nella mancanza di un progetto politico unitario e di dimensione internazionale, europea della conflittualità sociale. Il limite è quello di dare stabilità e continuità all'azione antagonista delle masse autorganizzate in lotta.


Due.
Il no alla lotta armata non è neppure un rifiuto aprioristico di questa forma di lotta. La Resistenza Partigiana in Italia e in Europa, così come le innumerevoli guerre di liberazione e di classe nel mondo, da Cuba alla Cina, dal VietNam all'Algeria, alla Rivoluzione Sandinista alle guerriglie latino-americane, e sono solo alcuni esempi certo non esaustivi, dimostrano che ci sono contesti e fasi storico-politiche che rendono necessaria questa forma di lotta per liberarsi da una tirannia, da un colonialismo, da un potere di classe oppressivo. Fasi in cui la situazione è rivoluzionaria per tutta una serie di condizioni e non sono possibili altre strade per la soluzione del conflitto sociale di classe a favore delle forze dei movimenti operai e popolari.
Non è il caso attuale delle società a capitalismo avanzato. Almeno in questa fase pur di crescita conflittuale. E comunque non penso che il carattere dominante di un'insurrezione nel contesto metropolitano sia quello militare. Esperienze molto recenti come quella tunisina hanno molto da insegnare, sulla forza che le classi popolari possono mettere in campo con la mobilitazione permanente, il boicottaggio, i blocchi, le occupazioni, i sabotaggi. Come un regime può collassare sotto la spinta dei tumulti sociali.


E' dentro la dimensione della metropoli, nella contesa sul comune, sulla ricchezza sociale e i suoi flussi, sull'autonomia delle pratiche sociali riproduttive che si gioca il processo rivoluzionario.
Non sulle elucubrazioni di sistematici da tavolino che spezzettano per fasi il processo rivoluzionario seguendo le "ricette" dei classici, in modo schematico e senza cogliere la complessità di un sistema globalizzato, le interdipendenze e le coesistenze di contraddizioni e soggetti negli stessi contesti sociali e culturali. Senza capire che la storia non si ripete mai con gli stessi schemi.

La Liberazione non è solo e meramente politica. E' ontologica. E il primo passo è rompere proprio con la simmetria politico-militare che l'antagonismo rivoluzionario "deve" per forza avere con il potere capitalistico.
La simmetria del conflitto militare col potere allontana da una trasformazione profonda le soggettività. E' quanto di meno anarchico e comunista si possa pensare.
Oggi è tempo di sperimentare l'autonomia, la riappropriazione, la liberazione, rompendo gli steccati di visioni steorotipate su "riformismo e rivoluzione".

E poi diciamolo fino in fondo. La lotta armata, per come ce la stanno ancora una volta configurando gli "a volte ritornano" è un volersi sostituire al soggetto sociale, e quindi non mettere al centro dell'azione politica la forza materiale della classe, del popolo.
Lo abbiamo già visto con le B.R. e con l'avvitamento al suicidio armato di intere componenti dell'autonomia operaia organizzata negli anni '70 e '80.
No, grazie.
Proprio oggi che le pratiche sociali riappropriative si vanno estendendo a livello internazionale, non è un caso che rientrino in gioco vecchie logiche alimentate sapientemente da chi non vede l'ora di inventarsi arbitrariamente "motivi" per partire con la repressione generalizzata dei movimenti.
La repressione ci sarà comunque e sarà forte, lo sappiamo. Le condizioni economico-sociali e la conseguente crescita della conflittualità sociale portano a questo. Ma se Nuova Resistenza di classe sarà, dovrà essere sulle pratiche e i contenuti dell'antagonismo sociale, non sull'azione esterna di spezzoni che col loro agire si pongono automaticamente fuori dal contesto della lotta di classe per come storicamente può determinarsi e si andrà a determinare.

La battaglia politica con questi spezzoni di nostalgici continuisti, se ve ne saranno, dovrà essere forte. Per difendere ed affermare le autentiche pratiche politiche antagonistiche e di sovversione sociale. "Compagni che sbagliano" il cazzo!

Per questo diciamo: no, la lotta armata no. Non in nostro nome. Non in nome delle lotte sociali.

venerdì 11 maggio 2012

STEFANO TASSINARI. IL SUO RICORDO IN UN'OPERA STRAORDINARIA.

 
Il Vento contro... oggi come ieri.
 

La scomparsa di Stefano Tassinari, amico e compagno, rappresenta una grande perdita non solo per la nuova letteratura italiana, ma anche per una sinistra "eretica" impegnata in una critica priva di dogmatismi. L'impegno culturale di Stefano andava al di là di facili analisi finalizzate a rassicurare, a trovare le ragioni stantie di antiche appartenenze.
Un esempio della sua vivacità intellettuale e della sua capacità di scavare con acume nella storia della sinistra, riportando all'attualità del dibattito fatti ed eventi lontani solo in apparenza, è un suo romanzo straordinario: Il vento contro.

La storia di Pietro Tresso: grande dirigente comunista, tra i fondatori del PCd'I nel 1921, espulso dal partito nel '30 dagli "svoltisti" filo-staliniani di Togliatti e perseguitato sia dal nazismo che dai suoi ex compagni fino alla sua morte, avvenuta in circostanze poco chiare nel '43 nei pressi di un campo partigiano dei Maquis, nei dintorni di Queyrières, Alta Loira, prigioniero della componente staliniana (che va detto era stradominante) e sottoposto a umiliazionie vessazioni.
Stefano, senza fare tante analisi preconcette, descrive il clima di scontro politico violento nel movimento comunista di quegli anni. Lo fa in modo letterario, scavando nell'animo e nelle intime convinzioni e passioni dei protagonisti, facendo emergere quelle tare che hanno viziato il movimento comunista stesso.
Ne viene fuori un quadro di straordinaria attualità. Un contributo prezioso per chi volesse togliersi il comodo e rassicurante salvagente di un sistema-partito per interrogarsi sul serio su cosa significa essere comunisti e agire da comunisti.

Troppo spesso si è confuso l'imprinting autoritario insito nell'esperienza comunista della forma partito, del centralismo democratico, con la necessità di cooptare e di dirigere il partito in condizini di clandestinità. Una forma mentis e una metodologia organizzativa e di gestione del partito, del rapporto tra partito e masse, tra avanguardia e classe che è proseguita anche in normali condizioni di legalità.
Sarebbe opportuno fare i conti con questo modo di essere e organizzarsi, di agire e di rapportarci come comunisti, comprendendo che gli eretici degli anni '70 hanno dovuto subire con il PCI di Berlinguer la stessa logica criminalizzante degli eretici di allora.
Una contraddizione che sento fino al midollo, poiché non posso non vedere come questo partito, con i suoi dirigenti e militanti, sia stato l'anima e la forza propulsiva della Resistenza.
Una questione che non si esaurisce al solo stalinismo. Nell'impianto trotzkiano, infatti, non ravviso differenze particolari sulla questione del partito. Una questione che non può essere feconda nel ripensare un essere comunisti, se l'affrontiamo con i vecchi schemi dell'epoca (terza e quarta internazionale...).
Sono schemi che celano la complessità della questione e della storia dei comunisti. Senza giustificare o demonizzare gli eventi più perversi e ignobili, come la fine di un grande compagno come Pietro Tresso.

Se andiamo a vedere l'ontologia dello stalinismo e del partito "ortodosso", soprattutto oggi, a fronte degli stalino-liberisti che attaccano i movimenti autonomi di massa (vedi lo scontro del PD con il Movimento NoTav), la scelta di riprendere i ragionamenti e l'esperienza eretica dell'Autonomia Operaia, è molto importante. 
Il tema dell'autorganizzazione, come forma protagonismo democratico e sociale dal basso, che esercita contropotere, che mette in discussione l'autoritarismo nella sua essenza di regime, di partito, che mette in pratica forme conflittuali di autonegazione di classe (di sé) "del lavoro salariato" che sia determinato dal capitalismo privato, welfariano, neoliberista o da un capitalismo di stato "socialista", è una questione di forte attualità.


Oggi vediamo un ex-PCI interno a un PD, che usa gli stessi schemi del centralismo democratico, della cooptazione, della sovradeterminazione, delle gerarchie burocratiche. I manifesti con il "concluderà il comp. senator. on. cav." mi hanno sempre messo i brividi. E ancora oggi mi fa venire i sudori freddi vedere Fassino da Floris riproporre la divisione tra quelli che hanno capito tutto e fanno politica, la nomenclatura da una parte e i polli d'allevamento dall'altra, il parco buoi elettorale, che diviene antipolitica quando inizia ad autorganizzarsi e ad agire al di là degli schemi imposti da uno stalinismo pseudo-liberaldemocratico.
Di questi orpelli, la sinistra di classe, comunista deve liberarsi concretamente. Il che non impedisce di vedere tutto il valore dei gappisti, di un Barontini, la funzione antifascista e il ruolo che ha avuto il PCI nella guerra popolare di Liberazione dal nazifascismo. E' la nostra storia. Metabolizziamola: di questa storia ne siamo parte, eretici o no. Ma poi riprendiamo anche e soprattutto le nostre esperienze più straordinarie e illuminanti di comunisti rivoluzionari che ci vengono dalla stagione dell'autonomia, la nostra forza libertaria nell'organizzazione rivoluzionaria strutturata, il nostro produrre progetto nell'autorganizzazione, il nostro essere nel movimento in un processo propulsivo dal basso, di essere nelle realtà di fabbrica e del territorio, il nostro rifiuto dell'organizzazione del lavoro salariato che sia capitalista o socialista, del mito del lavoro che inchioda i proletari alla loro condizione di salariati che molto ha a che vedere con il ruolo del partito, la gerarchizzazione, l'irrigimentazione.

Non esistono percorsi lineari. Deve esistere la capacità di essere materialisti dialettici nell'analisi, nell'autocritica e nell'elaborazione di una teoria e di una prassi rivoluzionarie all'altezza dei tempi e delle condizioni storico-sociali.
L'eresia della sinistra rivoluzionaria autonoma e di classe negli anni '70 ruppe la gabbia in tutti i sensi. E oggi questa necessità di rottura ontologica (esistenziale, direi) è ancor più attuale di ieri.
"Il vento contro" di Stefano Tassinari resta un contribuito per tutti i comunisti rivoluzionari e per la sinistra in generale. Per evitare i soliti "santini rossi" della storia, tanto comodi per ritrovare un'identità fittizia.
Grazie Stefano. Riposa in pace.