giovedì 27 settembre 2012

L'INSURREZIONE TRANSNAZIONALE E' ALLE PORTE.


Le notizie che arrivano dalla Spagna, il Parlamento spagnolo circondato da una massa di cittadini spagnoli che invocano la democrazia e la repubblica, che chiedono al governo Rajoy di andarsene, le cariche brutali della olizia, i deputati costretti a uscire scortati, ovviamente sono state messe sotto tono dai nostri media.
Se poi nelle stesse ore c'è il calo delle borse, i media, dopo le prime notizie che legano la fuga degli speculatori dai titoli europei all'incertezza del recupero dei crediti data dalla conflittualità spagnola, poi correggono il tiro cianciando, come su Radio Capital (Gruppo Repubblica... house organ di regime) di paura per la recessione spagnola: come se questa fosse una novità e come se al contrario non siano le politiche recessive del neoliberismo a garantire il flusso di danari nelle casse dei creditori blasonati, franco-tedeschi o anglosassoni, banche, fondi e compagnia cantante.
E il giorno dopo? Sciopero generale in Grecia, con scontri feroci. Ed ecco Eu e FMi che si dividono su come gestire la restituzione dei debiti greci: una dilazione i primi, che pensano a una situazione che precipita, una ristrutturazione del debito i secondi, che come tradizione vuole, già sperimentata sui popoli del terzo e quarto mondo, esigono il guidardone, senza stare tanto a guardare a questioni come la stabilità, cosa che riguarda gli europei.

Ma il dato di fondo che va letto da queste vicende e dalle risposte date dagli esecutivi e dai centri di comando del capitale d'occidente, è duplice.

Uno: i governi dell'oligarchia politico-finanziaria cominciano ad avere paura, perché sanno che quello che sta avvenendo in Spagna, in Grecia, e che le proteste non meno vaste a Lisbona di qualche giorno fa, che hanno imposto il governo portoghese la sospensione di una legge che imponeva ennesimi tagli ai servizi sociali alla popolazione, sono le avvisaglie di una situazione insurrezionale in tutto il sud Europa.
Il neoliberismo, ossia l'economia del debito che impone in Europa un imponente trasferimento di risorse e ricchezza sociale dalle cittadinanze agli speculatori, che sottrae salari, reddito, lavoro a decine di milioni di persone, ha svuotato le democrazie costituzionali, ha ridotto i sistemi parlamentari a semplici parlatoi sul nulla e i governi a meri esecutori di politiche decise altrove, nelle stanze dei centri di potere oligarchico.
I tumulti spagnoli, greci e portoghesi, sono comunque la miccia di una situazione esplosiva, un conflitto destinato a propagasi in altri apesi, non ultimo l'Italia.
Di questa situazione di rapina da parte dei potentati e di uso criminale della loro crisi ormai anche qui, sempre più cittadini e lavoratori ne hanno coscienza. Inevitabili gli sviluppi anche in Italia.
L'insurrezione transnazionale potrà essere l'epilogo nel fronte sud dell'Europa, con forti ripercussioni anche in Francia e in Gran Bretagna, in altri paesi ancora, fino al cuore stesso del potere capitalistico europeo: la Germania.
La rivoluzione è un'onda che si propaga e le masse (la primavera araba è l'ultimo dei tanti "insegnamenti" della storia) imparano velocemente. Ci sono giorni che valgono secoli. E oggi siamo sull'orlo di un forte cambiamento economico-sociale. I nostri nemici lo sanno già. E molto dipende anche da noi.

Due: i tumulti, le forme di sciopero selvaggio, l'occupazione dei luoghi del potere e delle decisioni, il sabotaggio finalizzati all'ingovernabilità e alla caduta di consenso, sono la strada giusta.
Solo così si possono creare contraddizioni nel campo avverso e aprire la situazione politica a nuovi scenari, incidere sui rapporti di forza.
Il programma minimo è nelle cose: non pagare e avviare un audit poplare di debito odioso verso la finanza che ha esautorato le democrazie rappresentative, ricostruire una sovranità costituente e popolare che parta dalle forme di democrazia dal basso, diretta, le uniche espressioni della politica realmente partecipate dai cittadini e democratiche.
Da qui, va da sé che solo con il controllo democratico dei cittadini e dei lavoratori con nuove istituzioni repubblicane sui gangli vitali dell'economia, dei mezzi di comunicazione, delle reti in cui passano i flussi di informazioni vitali per la riproduzione sociale, con la cooperazione, al nazionalizzazione di banche e utilities portanti, con nuove forme di attività collettivistica nel campo della produzione e dei servizi (a partire da quelli alla persona, alle infrastrutture). Un  controllo democratico sul mercato con la creazione di una moneta sovrana al servizio del comune e non delle banche.
Alla sottrazione crescente di ricchezza sociale, di beni comuni, di salari e reddito, occorre rispondere con una richiesta molto semplice: reddito di cittadinanza per tutti. Il diritto a una vita dignitosa e felice, prima ancora di qualsiasi prifitto e plusvalenza.
Un programma così uccide di fatto l'era del profitto. I più non ne piangeranno la sua dipartita mai troppo presto prematura.

Solo così è possibile uscire da un'era di guerra sociale dei più forti contro i più poveri, contro i proletari e i ceti medi proletarizzati, da un'era di guerra diffusa nel pianeta, per la tutela e l'affermazione del dominio imperialista sulle risorse energetiche, sul mercato del lavoro, contro gli altri attori dell'economia mondiale (Cina, Russia, ecc.), contro il declino del dollaro e dei centri dell'economia occidentale. Una situazione di barbarie prmanente e di catastrofe militarista, ambientale, alimentare, di caduta delle conquiste democratiche raggiunte nel Novecento, a cui il neoliberismo ci ha portato.

Il ruolo di una sinistra che sia veramente tale, è quello di favorire con ogni mezzo le forme di aggregazione costituente delle masse popolari, lavorare per collegare i movimenti, per riunificare su un progetto politico condiviso tutte le realtà sparse dell'antagonismo di classe, a livello internazionale. Il sio ruolo è quello di contrastare, isolare e battere le opzioni populiste e reazionarie, che sotto la bandiera dell'antieuropeismo nazionalista cercano (vedi Alba Dorata in Grecia) di instaurare governi fascisti e xenofobi: un'eventualitò molto vicina soprattutto in una fase di caos e di forti tensioni sociali.

Il terreno del confronto tra forze di sinistra, dunque, non parte da patetici cartelli elettoriali (il PdCI è in pole position per unirsi al PD...), ma da un progetto di potere costituente che sia punto di riferimento reale nei movimenti di massa.
Non è più tempo di tessere e di conte (se mai lo è stato).
E' tempo di distruggere la gabbia del neoliberismo con la forza del popolo che si autorganizza e che irrompe sulla scena politica devastando i progetti e i dispositivi di comando del regime oligarchico finanziario.
I comunisti devono porsi al servizio e alla testa al tempo stesso di questi movimenti.

sabato 22 settembre 2012

E APRIAMOLA 2

Chiedo venia, non sono un filosofo e non ho la laurea. Per cui mi limito a fare analisi che descrivono quello che vedo nella società, con un po' di letture e di documentazione. E ovviamente i fondamenti base del marxismo, che poi è il mio punto di vista. Quello che una volta era in voga definire le potenti lenti del materialismo storico e dialettico.

La mia considerazionde sul clientelismo e la criminalità organizzata come uno degli elementi di freno a una sacrosanta rivolta sociale come quella spagnola o greca, non vuole certo essere un verso al cretinismo antiberlusconista dilagante. Tutt'altro.
Se qui in Italia non capiamo che questa non è una "zona d'ombra", ma un dispositivo di "cattura del comune" vero e proprio, non andiamo alla sostanza della questione, ossia quanto questo aspetto incida.

Cosa crediamo alla favoletta (questa sì tipica dell'armamentario ideologico populista, qualunquista, manichea, che attraversa grillismo, travaglismo, pidismo e compagnia bella) del politico che si imberta i soldi e chi s'è visto s'è visto?
Con l'economia del debito (mi piace l'impianto definitorio e descrittivo di Lazzarato), nel nostro paese c'è una forte polarizzazione tra fasce sociali beneficiarie di ricchezza sociale, sempre più ristrette, con un ceto medio devastato e in più piccola parte ricomposto su altre modalità di rendita (fine del piccolo risparmiatore) e fasce sociali sempre più vaste, soggette al peso del debito, alla precarizzazione selvaggia, all'etica e alla condizione dell'utente che perde diritti sociali, alla salute, all'istruzione, al reddito indiretto nei servizi alla persona, diventando debitore integrale. I servizi diventano debiti, il lavoro diventa massimizzazione di pluslavoro a condizioni salariali in busta o a partita IVA falsa roidotte all'osso.
Ma nel primo caso va incluso anche tutto ciò che gira attorno al sistema di corruzione, appalti, all'intergrazione tra mafia e stato, criminalità organizzata e capitale: una fetta di PIL piuttosto consistente. Per esempio, il sistema dei partiti, o i sistemi di governance nelle pubbliche amministrazioni, non sono dei semplici contesti in cui operano ladri che rubano alla collettività: questa è la storiella morale che nasconde il fatto ben più importante, questo è un sistema di distribuzione del reddito, di creazione di rendite, ha una sua base sociale che vive di questo e una massa più in basso che vive nel ricatto e nella precarietà, nel poter avere un appalto, una commessa, un posto temporaneo.
Questi sistemi sono dispositivi che generano consenso attraverso clientele, pratiche illegali come la corruzione, ma anche il ricatto su segmenti classe lavoratrice iperprecarizzate. Rappresentano un modello di gestione del potere amministrativo, ma anche un'efficiente organizzazione e divisione sociale del lavoro, un dispositivo di comando sulla forza lavoro, sugli utenti e sul territorio. Guardiamo, altro esempio, alle cooperative bianche o rosse che siano, quelle che decidono del futuro stesso dei "board di governance" delle PA. Sono diventate così potenti che i giochi si sono ribaltati: le amministrazioni sono i loro comitati d'affari, così come lo sono e di altri soggetti consorziati che si gestiscono il potere locale, il potere sulla res publica, sul comune.

Quindi, compagni, ritengo che la mia analisi non sia "marziana", ma del tutto marxiana e non va svalutata nel gorgo dei luoghi comuni. Certo, è semplicemente abbozzata, con molte pecche probabilmente. Ma basta sforzarci di vedere ciò che accade nei nostri contesti di vita e di lavoro per capire e tentare un'analisi. Spinoza e Focault aiutano, ma non sono a Borgonuovo di Sasso.
Se non comprendiamo in specifico questo, rischiamo di ragionare per categorie astratte.
Davvero pensiamo che basti aver individuato nuove e discutibili centralità nella classe, e le sempiterne e revisioniste "posizioni erronee in seno al popolo" (il socialismo novecentesco) per far quadrare il cerchio?
Troppo facile, troppo semplice. Forse occorrerebbe mettere la stessa vis che si impiega per dare metaletture generali dell'"impero", nell'analisi concreta della situazione concreta.
Quando Formenti nel suo contributo parla di un post-operaismo a rimorchio dei movimenti anarchici, registra anche il ritardo in cui versa l'analisi e l'organizzazione dell'autonomonia di classe nel nostro paese. Si può e si deve discutere di questo.

Oltre al fattore prima descritto, ci sono altri aspetti che stanno ritardando (ritardando, non bloccando, capiamoci) una rivolta sociale diffusa organizzata. Uno è legato anche (non solo ovviamente) a questo dispositivo di cattura del comune e di organizzazione del lavoro sopracitato: la frammentazione del corpo di classe, la sua scomposizione.
Un altro ancora è l'aspetto ideologico di cui fa cenno Negri, ma come elemento culturale diffuso nella sinistra nel quadro di una situazione più generale che deriva da una ragione più ampia e "operaista": la sconfitta del movimento antagonista negli anni '70, che ha interrotto pratiche, coscienze, conoscenze, formazioni organizzate, collettivi e soggettivazioni rivoluzionarie. E' rimasto un fluire carsico di queste soggettivazioni (vedi centri sociali e altre aree dell'antagonismo), ma flussi portanti sono stati interrotti dalla repressione delo stato, dal cambio neoliberista che obbligava l'autonomia di classe a salti di qualità. Che non sono stati fatti, poiché era venuta meno la forza sociale d'urto e l'intelligenza collettiva per compierli adeguatamente.
Negri forse si riferisce all'egemonismo del pensiero post-marxista ortodosso (dal berlinguerismo al PD), già debole e parte del pensiero unico neoliberista (che con l'avvento delle nuove tecnologie mediatiche e del comando ideologico e spettacolare... non dico berlusconiane sennò accendo automatismi critici avulsi, ha ammazzato definitivamente l'egemonia culturale della sinistra che esisteva nel dopoguerra), si è amalgamato ad altre forme di pensiero prevenuto, facile,  costitundo il bagaglio culturale di certa insofferenza qualunquista. Dentro facebook non abbiamo che esempi che ci infestano le palle da mane a sera.
E, sempre Negri, si riferisce alle forme di autorappresentazione liturgica del vetero sindacalismo della triplice, incorporato nel comando della produzione, nel sistema di comando più in generale del capitale, proseguono come zombie (calpestate spesso dal capitale, dalla FIAT), travolte in non poche circostanze da antagonismi di fabbrica, sociali, che però non trovano sponde, soggettività coese e porgettuali in grado di far scoppiare la luxemburghiana scintilla del'organizzazione comunista di massa.
E Negri parla anche di un socialismo novencentesco che permane nei partitini e partitelli della sinistra che tenta di essere neoistituzionale, i maggiori artefici dell'inesistenza di un soggetto politico serio.
Ma tutti questi fenomeni, a mio modo di vedere, sono secondari e residuali. Dov'è la forza sociale del PD? Nei salotti televisivi c'è poca massa critica. E dov'è il forte movimento operaio sindacalizzato, che per il socialismo isola gli untori? E dove la sinistra di classe? Più impegnata a guerre di bottega che a ricostruire un percorso collettivo e un progetto politico unitario anticapitalista e di potere costituente di classe.

Sono i movimenti del conflitto sociale ad avere aperto spazi di sviluppo di soggettività e di elementi di programma minimo che spiazzano tutta questa merda del passato.
Ecco perché parlo di "autostrada" per una sinistra rivoluzionaria che voglia davvero porsi sul terreno di un lavoro politico serio. Una SR che, ammettiamolo, è inesistente sul piano politico, del soggetto.

Ma in conclusione, tranquilli, la rivoluzione ci sarà e la rivolta è nell'aria. I dispositivi formali o informali di disciplina e controllo del capitale sul proletariato e le classi popolari, i soldi e le modalità di esistenza e di riproduzione sociale dei sistemi camorristici e mafiosi sulle popolazioni del mezzogiorno, i sistemi clientelari emilo-toscani rosso-bianchi, non fermeranno l'occupy italiana. Che non sarà nelle forme di occupy e non sarà solo italiana. I movimenti cresceranno anche e nonostante tutto il loro spontaneo armamentario della mitologia del lavoro e della Costituzione, a dispetto della nostra spocchia intelettualoide da Cassandre dalla lingua complessa  e spesso indecifrabile ai più.

Ma occorre cambiare passo. 

Occorrono inchieste serie sulla s/composizione di classe, che non parlino solo di alcune tendenze e non della complessità. Occorre affrontare i nostri punti deboli, uno importante su tutti: il modo di produzione capitalistico nella sua fase post-fordista ci mette davanti a una classe polverizzata. Bello il tentativo di dare una veste cognitiva alla "cosa", una lettura della classe che parta almeno da un bandolo della matassa. Ma è un cul de sac. Non esiste solo il Teatro Valle. E l'irruzione degli operai dell'Alcoa sulla scena politica nazionale, con il loro "armamentario" da mitologia lavoristica della sopravvivenza scompagina un po' il quadretto, visto che Marikana è molto lontana.

Quindi, scusate compagni, ma manca ancora il soggetto politico che agisce sulla totalità e la complessità della classe, dei settori sociali che in varie modalità sono subalterni allo stato, al capitale, che subiscono le politiche neoliberiste: quel 99% (percentuale simbolica, non effettiva, non sto a fare i conti qua...), di cui una vasta percentuale non ha ancora capito che è in atto una guerra sociale nei suoi confronti da parte di "90 milioni di persone, (...) vero e proprio “blocco sociale” (che) opera sui mercati di Borsa «come un partito informale ma solidissimo, in grado di determinare l’andamento dell’economia e di condizionare in modo determinante la politica»" (Gattei, la Germania contro tutti, carmillaonline.com)
Per tornare a stravolgere gli assetti del comando e a sviluppare autonomia proletaria, la classe va presa tutta. Tutto il pacchetto, compagni. Pacchetto ideologico novecentesco e costituzionalista incluso, mettere le mani nella merda, please. La battaglia politica va affrontata. Altrimenti finiamo con il ricostruire riserve indiane ai margini... dell'autostrada.





sabato 8 settembre 2012

E APRIAMOLA, LA DISCUSSIONE.


Su questo sito:

Qualche questione sullo stato dei movimenti: apriamo la discussione"

Ci sono spunti piuttosto interessanti per un dibattito interno al movimento antagonista sulle prospettive di una ripresa di un ciclo di lotte sociali autonome e di cambiamento radicale, rivoluzionario della società capitalistica. Con un occhio particolare alle esperienze di Occupy e alla situazione italiana.
Pertanto consiglio la lettura dell'inervgento di Negri, prima di affrontare le mie considerazioni.

Come sempre Toni individua della questioni importanti, ma su altre sono meno persuaso.
Giustissime le considerazioni sui centri sociali, almeno certi, che hanno fatto dell'autoreferenzialità e dell'"autoimprenditorialità", del localismo, la loro bandiera.
Sorvolo sull'annnosa questione del "lavoro materiale" e "immateriale" e sulla centralità del lavoro cognitivo (le figure del lavoro salariato sono molto più complesse, frammentate e inoltre è fuoriviante cercare delle centralità oggi), che meriterebbe una trattazione a parte.
In buona sostanza non credo che occupy non abbia attecchito in Italia a causa della tradizione "socialista" novecentesca che permea la sinistra, partitini e partitelli inclusi. Penso piuttosto che in Italia ci siano vasti e radicati “ammortizzatori sociali” illegali, criminali, clientelari, come l'economia sommersa, il clientelismo e il familismo nelle pubbliche amministrazioni, le mafie che gestiscono pezzi fondamentali dell'economia, anche quella emersa e legale.
Il che significa: lavoro e rendita, quindi reddito. In Spagna non  mi risulta un tasso così elevato di evasione, di corruzione e di collusione tra pubblico e malaffare, mafie, consorterie e cricche corporative con tutte le loro cordate e corti dei miracoli. 
Ciò costituisce un vero e proprio "modello produttivo", di riproduzione sociale, di ripartizione della ricchezza sociale.
Inoltre in Italia con la crisi, la precarizzazione, la flessione del lavoro dipendente "garantito" si riduce l'aristocrazia operaia e impiegatizia: la base sociale storica dell’”eurocomunismo”, dei sindacati. Si sgretola la composizione storicamente data dal dopoguerra agli anni '80  del ceto medio,  che si restringe anch'esso e si ricompone all’interno di questa zona d’ombra ed è per questo che la "socialdemocrazia" e il post-democristianesimo variamente di marca “sinistra DC” (l'impasto di cui è fatto il PD) cercano altri referenti e trovano più facile assecondare gli appetiti finanziari e appaltatori dei grumi forti di potere, coop incluse, che cogestiscono con i poteri mafiosi, ciellini il pubblico, i servizi, il territorio. Nel PD le "anime candide" muoiono sotto i colpi dei faccendieri, che ora hanno campo libero, perché i voti li vanno a rastrellare da chi beneficia o vive il ricatto del reddito e del salario redistribuito nelle forme sopra citate. Ecco il perché dell’inciucio ABC, ma più strutturalmente, la ragion d’essere dei partiti di regime, l’ontologia della casta politica in sé.
Il sistema spartitorio dei servizi e delle opere pubbliche dentro l'asse coop "rosse" e Compagnia delle Opere, per esempio, ha modellato una struttura salariale, di sfruttamento della forza lavoro, creando un regime di precarizzazione da una parte e di riformulazione della gestione del comune dall'altra, godendo di una continuità dei cicli di produzione dei servizi e del cemento e godendo di crediti privilegiati.
Un modello produttivo che crea consenso, acquiescienza, nel ricatto di chi può esercitarlo da una posizione dominante.
La precarizzazione crea dipendenza in tutti i sensi. La redistribuzione del reddito a partire da ambiti di lavoro garantito di medio alto livello e di rendita più o meno occulta, nel caso del management, diffonde consenso.

Se non vi fossero questi ammortizzatori reali, avremmo sicuramente anche qua un forte e generalizzato scontro sociale. Pensare che il freno sia l’imprinting socialista e comunista novecentesco è dare un’interpretazione soggettivista dello stato dell’arte italiano della lotta di classe.
Altro che egemonismo del socialismo novecentesco! (un'egemonia persa anche nel mondo della cultura e dell'arte con l'avvento del berlusconismo e l'omologazione degli "intellettuali" al pensiero unico). L’autonomia di classe e l’antagonismo verrebbero fuori anche con le vecchie contraddizioni, perché la lotta di classe va oltre gli elementi soggettivi che possono influire ma non stabilire il grado del conflitto.
Ci dovremmo pertanto misurare con l’ultrademocraticismo legalitario, costituzionalista, con quelle aree politiche che pensano ancora al costituito ormai morto e consunto e non al costituente. Ci dovremmo misurare con l’etica del lavoro e capire in che modo far emergere la comune rivoluzionaria che va oltre il lavoro salariato, oltre il rapporto capitale/lavoro, che affermi l’era del reddito di cittadinanza universale, di una riproduzione sociale un funzione del soggetto collettivo e non dei profitti (qualunque destinazione abbiamo) e del privato. 
Ma questa è una battaglia politica per linee interne, all’interno di chi vuole rimettere al centro il welfare, i beni comuni, la vita della collettività. Dovremmo e dovremo trovare una piattaforma comune e un terreno comune di iniziativa, di offensiva di classe.
Le forze dell'autonomia proletaria avranno a che fare con un "costituzionalismo" sano e molto spesso ingenuo. Si troveranno davanti masse di lavoratori che vedono nel lavoro l'unica prospettiva per la propria esistenza, elemento di dignità soggetiva.
Che si fa? Ci si avvita dentro le sacche di lavoro cognitivo in lotta?
Pensare che esperienze come il teatro Valle siano il prodotto di una forza sociale centrale nel conflitto di classe è fuorviante. E i milioni di lavoratori nelle imprese produttive, della grande industria ma anche delle PMI? E i lavoratori autonomi, spesso forza lavoro salariata con unico datore?
Ancora una volta viene da pensare che fabbrica, università e scuole, più o meno grandi concentrazioni del lavoro come ospedali, teatri, il territorio nelle questioni che spingono alla mobiltazione vasti settori di cittadinanza (No Tav), siamo il punto di partenza, dove la classe si ritrova quotidianamente o su questioni eccezionali, dove quindi è più facile mettere in moto un'intelligenza collettiva, forme di autorganizzazione e di lotta.
L'autonomia riparte da qui, sempre.

La questione vera è il lavoro comunista per favorire la formazione di dinamiche riappropriative e di gestione del comune. Questo è programma immediato e generale insieme, gestibile al di là delle visioni "socialiste". Formazione dei consigli, autogestione, riappropriazione, autonomia e contropotere in definitiva: sono aspetti che sono sempre emersi nel percorso della lotta di operaia e di classe. Semmai siamo noi autonomi, che vediamo ancora una vecchia linea di demarcazione tra movimento operaio (sveglia, il PCI non c'è più!) e altro movimento operaio. Oggi le nostre proposte hanno davanti un'autostrada.
Poi ci saranno partiti veterocomunisti che partono dal solito progettino. Ma perché, un audit sul debito con la FIOM non va bene? Sarà l'autonomia proletaria  a forzare l'orizzonte ponendosi come soggetto che lavora sulla potenza della classe, della sua autorganizzazione, della sua riappropriazione di ricchezza sociale. Sarà la dialettica interna all'opposizione sociale e alla sinistra di classe a ridefinire rapporti di forza, direzione del processo rivoluzionario.

Per concludere, due parole su OCCUPY.
E’ vero: occupy ha vinto perché ha riformulato l’orizzonte della politica rivoluzionaria, il protagonismo dei movimenti di massa. Usando “vecchi” termini, a cui mi sento ancora legato, ha riposto al centro dell’anticapitalismo e dei movimenti proletari la democrazia diretta, l’autorganizzazione, quell’autoattività delle masse tanto cara a Rosa Luxemburg. Quel farsi potere della classe, che è autonomia e contropotere.
Occupy lo ha fatto con nuovi linguaggi e nuovi stilemi dell’agire, dell’aggregarsi. Prendiamone spunto, ma in Italia la questione avrà forme sue, originali. Questo sì, proprio a causa di un fattore K duro a morire.