martedì 28 febbraio 2012

SUL REDDITO DI CITTADINANZA.


Anche questi sono appunti sparsi. E non potrebbe essere diversamente. 1. Io non sono un economista. Però, di fronte a uno dei più grandi trasferimenti di ricchezza sociale dalla collettività ai centri della finanza, che non lavorano, ma muovono masse monetarie in modo arbitrario e banditesco, mi vengono spontanee alcun considerazioni. Quanto costa una persona? Quanto profitto viene fatto su di noi da quando nasciamo? Ospedale, asilo, mangiare, la scuola... Quanto lavor...o deve fare nostra madre? Non retribuito. Quanti soldi vengono spesi per l'istruzione? Tutto questo viene consegnato da questa cricca di governanti, di ieri e di oggi, ai circoli economici che stabiliscono il costo del lavoro, e ottengono a salari di merda, vite precarie, esistenze di persone che sono costate un occhio a famiglia e comunità. A noi i costi e il saccheggio delle nostre risorse, in tagli di spesa, di pensioni, ecc. A loro la crema: profitti estorti con la politica europea del debito, costo e condizioni di lavoro supervantaggiose, che significano ormai essere al di sotto della soglia della sopravvivenza. Ecco perché, il lavoro in sé non può più essere il metro della sussistenza quotidiana. Se fate soldi da quando nasco, ho diritto, tutti noi abbiamo diritto al REDDITO DI CITTADINANZA, pagato coi profitti di queste merde. E' anche un concetto di civiltà, di diritti umani, di cittadinanza. Comunismo o no, è venuto il momento storico, l'epoca in cui a tutte le persone va garantito un livello di vita materiale, sociale, culturale, di salute, di spazio, adeguati. Tra di noi possiamo dircela e analizzarcela, l'estensione del plusvalore nella produzione immateriale, che si integra nelle nuove forme della riproduzione sociale con quello che abbiamo sempre definito la sovrastruttura, il terziario. L'informatizzazione ha accellerato e dilatato i processi di produzione di plusvalore e il pluslavoro è in un certo senso diventato anche parte del nostro "tempo libero", meglio: tempo non dedicato alla produzione nel rapporto salariato, nel rapporto capitale/lavoro. La crisi di sistema è proprio anche crisi di impossibilità del capitale di dare risposte alla collettività nelle nuove modalità di sfruttamento globale. Sono saltate le mediazioni, si sono assottigliate le "aristocrazie salariate".

2. Alla massa occorre parlare chiaro, con concetti semplici. Se ci stanno rapinando su vasta scala, ciò che ci deve ritornare, è un diritto sacrosanto, e serve per garantire un'esistenza dignitosa e una qualità della vita adeguata per tutti. Il potere costituente, costituisce nel conflitto sociale anche un nuovo contratto universale all'interno del consorzio umano. Gli stati generali dei poteri costituenti europei e nei centri dell'imperialismo occidentale devono sostenere questo.

3. Il lavoro non è che sparisce. Come dicevo giovedì scorso, le chiappe di un'anziana non deambulante non le può pulire una macchina. Avrà finalmente ed esclusivamente una funzione sociale, non sarà il metro che misura il valore di scambio, ma sarà valore d'uso allo stato puro. Siamo esseri sociali, con una coscienza della nostra appartenenza al consorzio umano. Ci saranno sempre persone che si dedicano a qualcosa di utile e necessario per gli altri e per la collettività, anche con turnazioni per le mansioni più difficoltose. Ma la cittadinanza è un diritto che va riconosciuto a tutti, come diritto a vivere. E per vivere ci metto dentro tutto ciò che ho elencato prima.

4. Ovviamente, su questo punto del reddito di cittadinanza, emerge un processo costituente che non può non andare a toccare l'ambito della detenzione dei mezzi di produzione. Si punta quindi alla socializzazione della produzione, ma quella vera, non quella del socialismo. Il socialismo è stato indicato da Marx come fase della transizione al comunismo per il semplice fatto che il livello della produzione di allora non aveva raggiunto i livelli attuali e la configurazione del sistema-mondo vedeva il passaggio squilibrato da un'economia primaria agricola a una industriale. Oggi, nel momento in cui la stessa industrializzazione (e l'agricoltura già da decenni industrializzata) è parte di un processo oggi primario che è l'informatizzazione su scala mondiale, la produzione cognitiva anche come forma che sovradetermina tutto il resto, i flussi di lavoro, di produzione, di merci, di moneta, le modalità con cui avvengono, il comunismo, l'appropriazione collettiva della produzione, dei beni, delle risorse, delle forze produttive, dei tempi, degli spazi, aprendo a una società in cui il valore di scambio MUORE, si delinea come possibile su tempi molto più brevi e su aree geopolitiche sempre più comuni, simili nei tratti costitutivi e omogenee, il socialismo va definitivamente in soffitta. Con l'ideologia del lavoro a supporto culturale, in realtà si era già manifestato come elemento di freno alle rivoluzioni proletarie, in quanto per essitere sul mercato internazionale a dominananza capitalista, la forza lavoro operaia e contadina rientrava nel costo del lavoro e nei tempi di produzione nei parametri imposti dal capitalismo stesso e con le medesime forme. Il proletariato si autosfruttava, ma in realtà il sistema celava il dominio (attraverso il partito e la burocrazia di stato) di una classe che si appropriava del plusvalore atttraverso meccanismi di appropriazione "colettiva" e non formalmente privata. Uno degli errori del trotzkismo è quelo proprio di salvare la struttura della produzione, il modo di produzione socialista, imputando la distorsione a una sorta di burocratizzazione, di casta burocratica. In realtà il lavoro salariato, nella socializzazione dei mezzi di produzione deve negare se stesso in quanto tale. E in una composizione sociale dove lavoro materiale e immateriale, tempo di lavoro e tempo non liberato dalla riproduzione sociale e dalla realizzazione del profitto, la contraddizione si estende dal mero campo del salario a quello del valore più generale occorrente per l'esistenza dei soggetti, per l'esistenza di una forza-lavoro che oggi è ancora più gernerale forza sociale, forza della riproduzione sociale di merci, informazioni, intrattenimenti, mainstream culturale, valori, dove tutto concorre a produrre plusvalore. Nel diritto a un reddito garantito, di cittadinanza, si va a mettere in discussione i meccanismi stessi del profitto, dell'accumulazione capitalistica.

5. Il valore di scambio determina il tipo di prodotto/servizio erogato e le sue modalità di fruizione. L'esempio del fastfood: produzione di merce: la pizza, la pietanza. Distribuzione: la sua vendita alla cassa. L'estensione della produzione di plusvalore nella sfera del consumo: il consumatore che gira col vassoio, sceglie le pietanze e, alla fine del pasto, ripone il vassoio dopo averlo vuotato nel bidone dei rifiuti. Si provi a pensare quanta manodopera risparmiata per l'impresa. L'Ikea spiega molto esplicitamente il perché il cliente deve buttare gli avanzi e le suppellettili usa e getta nei rifiuti e riporre il vassoio nell'apposito portavassoi: perché altrimenti ci sarebbe un lavoratore che lo farebbe al posto suo. In realtà è precisamente il contrario: è il cliente che lo fa al posto del lavoratore. Tra produzione e distribuzione, nell'estrazione di plusvalore, molto spesso non esiste più una netta distinzione.

6. A ciò va aggiunta la funzione sociale che ha il prodotto e servizio nel valore di scambio: questo tipo di consumo è finalizzato alla massimizzazione dei tempi e dei luoghi in funzione del business, del lavoro o dell'intrattenimento che realizza profitti. Nella società del valore di scambio non ci sono tempi per sé, modalità di una libera fruizione, per una soddisfazione di bisogni che non sia sovradeterminata dalle modalità e dai tempi del profittabilità. Il fastfood è adeguato e funzionale mai ritmi di lavoro per l'estrazione di plusvalore nei processi produttivi magteriali o immateriali in cui si estrae, per la realizzazione dei profitti in ogni ambito di socialità e in ogni comportamento soggettivo.


7. Il lavoro vivo viene assoggettato ai tempi e ai modi della riproduzione sociale capitalistica e dell'estrazione di plusvalore. Questo lo è di più oltre la produzione di fabbrica, dove la forza-lavoro viene espropriata del suo valore reale occorrente per riprodursi. Il suo valore espresso in tempo per formarsi ed evolversi, tempo di vita, valore culturale, valore in abilità tecnica, conoscenza e competenze, viene espropriato di default dal capitale in ogni momento della vita sociale. Ma più direttamente, in rapporto al salario reale d'azienda e al salario sociale che il capitale, attraverso la mediazione dello stato, mette in circolo in servizi e spesa per il pubblico, che, se preso nella sua complessività, è totalmente inadeguato a ripagare le esistenze stesse dei proletari, e al di sotto della soglia di una vita dignitosa e della sopravvivenza, ormai anche nei centri metropolitani dell'Occidente.

8. In una società svincolata dalla funzionalità per lo scambio merce/servizio con danaro, in cui diviene centrale e sussunto globalmente il valore d'uso delle cose e delle azioni, dei luoghi e dei pensieri, dei tempi e delle relazioni, cambiano anche le cose stesse, quindi le attività umane non più alienate. Il fastfood sarebbe impensabile. Chi starebbe a fare cosa e come, sarebbe il risultato di coscienze, conoscenze e passioni, in mansioni ricoperte volontariamente, o a turno, nell'arco degli eventi sociali liberamente espressi, e degli atteggiamenti soggettivi liberamente scelte in completa autonomia individuale. La barriera fruitore erogatore in molti casi non esisterebbe più e, nell'ambito per esempio sanitario, sarebbe labile, relativa alla passione, alla compassione, all'affetto, al giuramento di Ippocrate.

9. REDDITO DI CITTADINANZA: socializzazione die profitti. Primo passo verso la loro abolizione e alla liberazione del valore d'uso.
In questo modo cambiano anche i tipi di prodotti e servizi e il modo di fruirli (vedi punto 8.) (nel valore d'uso liberato).
Socializzazione dei mezzi di produzione, del modo di produrre e delle forze per produrre, deve andare oltre il valore del lavoro in funzione dello scambio e dei profitti. Il valore del lavoro non è più valore dominante di tempo, luogo e modo, ma è funzione sociale pura. Negare il suo valore legato anche a un'attività socializzata, (vedi il socialismo) significa liberare le persone dalla necessità del salario.
La transizione deve seguire un'altra strada da quella del lavoro come valore di scambio pianificato e al servizio del bene pubblico, ossia dalla riproposizione della condizione di proletariato, di salariato che blocca la transizione stessa.
Sarà necessario pensare a forme di cooperazione e socializzazione che superino il valore di scambio, il rapporto capitale/lavoro nella generalità della formazione economico-sociale in transizione. E' rivoluzione economica radicale, ma anche culturale, antropologica. Oltre la civiltà del lavoro.

giovedì 23 febbraio 2012

L'ALTERNATIVA POSSIBILE (6a parte)


DEMOCRAZIA E INSURREZIONE.


SUL CONCETTO DI RIVOLUZIONE.

Chi oggi lavora per cambiare questo stato di cose, non può non porsi il problema della rivoluzione, ossia di quel cambiamento che porta alla fine del dominio economico, politico e sociale di una classe, per mezzo dell'apparato statale e di altre istituzioni di controllo sociale e culturale e dell'avvento di un potere popolare da parte delle classi sociali precedentemente subalterne.

Nella storia dei movimenti operai e proletari e nella teoria politica dei partiti comunisti, ha dominato il punto di vista di Lenin: l'abbattimento dello stato borghese e l'instaurazione della dittatura del proletariato o delle classi rivoluzionarie nella centralità della classe operaia. Tutto il primo Novecento, in Europa, è costellato di insurrezioni armate operaie, da Reval all'Ottobre Sovietico stesso. L'insurrezione è la forma concreta che riassume dalla Comune di Parigi in poi, del 1870, la sollevazione popolare moderna contro la borghesia.

Così come nelle varianti marxiste terzomondiste, la teoria del foco guerrillero, dallo sbarco del Granma a Cuba ai tentativi di Guevara (l'ultimo in Bolivia nel 1967), alle varianti urbane dei Tupamaros e di altre organizzazioni, come l'M15 e Carlos Marighella in Brasile, tutto è ruotato su questo assioma: di una guerra di popolo e di classe che con carattere insurrezionale (guerra centrifuga) o di guerriglia nelle campagne e nelle montagne verso le città (guerra centripeta), punta a rovesciare lo stato borghese per instaurare lo stato operaio e/o dei contadini.
Su questa visione si sono potuti affermare partiti/eserciti che partivano spesso privi di un sostegno popolare per sedimentarsi nella classe, nel popolo, organizzandolo e dirigendolo nel processo rivoluzionario.

Il limite è stato quello di un'egemonia del partito sulla classe, che ha avvitato i processi rivoluzionari su loro stessi, anche e soprattutto nella fase transitoria al socialismo dopo la conquista del potere politico.
Questa impostazione, dell'avanguardia da cui nasce tutto, ha portato all'avventurismo, ben pagato nel nostro stesso paese, con l'esperienza della lotta armata, sia marxista-leninista (delle Brigate Rosse), che quella che rappresentava la prosecuzione di una guerriglia sociale diffusa dell'Autonomia Operaia e della miriade di gruppi armati negli anni ‘70.

Premetto subito che non è possibile separare l'aspetto tecnico-militare, oggi più politico e non certo militare (ci torno più avanti), dalla questione di come si formano un'organizzazione di classe e un programma rivoluzionario. Forme e contenuti coincidono.
Oggi possiamo dire che il marxismo-leninismo, nelle sue varianti storiche successive alla Rivoluzione d'Ottobre, non ha rappresentato tutte le potenzialità che potevano esprimersi nei processi rivoluzionari. Ha imbrigliato la forza creatrice e pervasiva della classe nelle griglie rigide di una burocrazia armata o successivamente di una burocrazia economica e d'apparato.

Questi sono conti che vanno fatti per comprendere che in una società globale, nelle metropoli dell'Occidente, ma anche in quelle dei paesi del terzo mondo, questa impostazione tattica, strategica, politica e metodologica è un'arma spuntata.

Con questo, non si vuole dire che lo spontaneismo è tutto e che non occorra un'organizzazione coesa, unitaria della classe, nelle lotte sociali parziali, come nello scontro politico decisivo. Ma è il modo di concepire il soggetto politico, l'avanguardia comunista che va radicalmente cambiato. E per farlo occorre partire dalla configurazione che assumono i conflitti sociali contemporanei.

Tutto si misura sostanzialmente nei rapporti di forza tra classi sociali. Si tratta di comprendere come si arriva al punto di rottura e al ribaltamento dei rapporti di potere. Non esistono regole generali e ogni situazione specifica ha le sue caratteristiche. Ma dovremmo imparare molto dalle sollevazioni delle popolazioni arabe che ci sono dirimpettaie nel Mediterraneo.

Chiariamo subito una cosa. Se decidiamo di superare gli schematismi e prendiamo il pensiero leniniano come un elemento guida dell'azione politica, la cosa migliore è quella di coglierne l'essenza e riportarla all'oggi. Senza ripetere in modo pappagallesco “antiche verità”.


LA RIVOLUZIONE E’ DEMOCRATICA E POPOLARE, O NON E’.

Ora come allora, la rivoluzione o è democratica e dal basso, o non è.

O è il prodotto, la sintesi e la cifra qualitativa (non solo quantitativa), di una democrazia diretta, di una maturità sociale diffusa, di un potere costituente dal basso, di un'autorganizzazione di massa, di una convergenza di molteplici soggettività e settori sociali su un programma rivoluzionario, di una comune che non può non trovare sbocchi per esprimersi e che pervade tutto il corpo sociale, fin'anco le istituzioni stesse del potere capitalista, oppure è un atto arbitrario destinato alla sconfitta, prima della presa del potere e, nell'ipotesi che ci sia un dopo, nel dopo.

Possiamo morire per mano del nemico certo, ma possiamo morire prima ancora per mano dei nostri limiti soggettivi.

Se guardiamo ai processi rivoluzionari a cavallo di questo secolo e di quello precedente, prendendo la parola "rivoluzione" limitatamente a un ribaltamento di rapporti di forza sociali e non "rivoluzione socialista o comunista", possiamo arrivare a tre classificazioni di tali processi:

A) Processi rivoluzionari che hanno avuto predominanti le contraddizioni interne ai ceti dirigenti e all'apparato statale stesso;
il caso dell'URSS e di gran parte dei paesi "socialisti", collassati al loro interno a causa di fattori esterni (internazionali) ed interni al sistema, dove certamente ha giocato un malcontento popolare diffuso ed endemico, che ha finito per corrodere le istituzioni stesse, le relazioni sociali normate del sistema stesso, pur senza un'opposizione sociale diffusa e operante;

B) Processi rivoluzionari che hanno avuto predominanti le spinte dal basso, popolari; abbiamo visto scorrere in tv le immagini della rivoluzione tunisina e delle sollevazioni che dall'Egitto allo Yemen hanno scosso il mondo arabo; in Tunisia l'apparato è crollato sotto queste spinte irresistibili;

C) un mix tra l'aspetto che riguarda il collasso istituzionale e quello che riguarda la sollevazione popolare auto-organizzata dal basso.
Quando in un sistema economico-sociale le mediazioni sociali non tengono più, cade il patto sociale, e le sue determinazioni politiche e culturali entrano in crisi a causa di clima di decadenza diffuso, a cui corrisponde una conflittualità sociale dilagante, si aprono nuovi scenari di radicale trasformazione sociale.

Ciò potrebbe disegnare gli sviluppi sociali conflittuali nei paesi dell’area europea-mediterranea, a fronte della crisi di sistema, già precedentemente trattata.
La Grecia in modo più imminente, ma domani la Spagna, il Portogallo, la stessa Italia. E inusitatamente del “centro dell’impero”, con le lotte OCCUPY statunitensi.

In questo caso è difficile prefigurare cosa potrà accadere e come. In che modo il potere costituente popolare dal basso scardinerà i meccanismi della riproduzione economico-sociale e gli apparati del controllo sociale. Se vi sarà un punto di rottura rivoluzionaria e una transizione a forme sociali collettivistiche oltre l'accumulazione capitalistica e lo sfruttamento del lavoro. Oppure se i movimenti insurrezionali andranno a porre forti limitazioni al potere capitalistico, ridisegnando un quadro costituzionale di democrazia allargata, sia sul piano politico che economico. In specifico un'Europa dei popoli, basata su un diverso equilibrio dei poteri.
Quel che è certo è che ormai l’area debole del vecchio continente sta diventando un laboratorio importante per il cambiamento rivoluzionario o comunque collettivistoco e anticapitalista.


Il precariato sociale, pur nella sua difformità da area ad area e da situazione a situazione, è la nuova composizione sociale nell’Occidente avanzato, in larga parte di forza-lavoro cognitiva, ma anche realtà di lavoro salariato operaio, che sta iniziando a esprimere la propria forza materiale, come elemento trainante sul resto della società. L’antagonismo non si esprime sul piano di una centralità di classe, ma su una autovalorizzazione diffusa dei soggetti.
Nel momento in cui l’attacco del capitale finanziario e dei gruppi di potere capitalistico si innalza, la miseria dilaga, e il conflitto sociale si estende e si acuisce, la rete orizzontale dei soggetti si estenderà a tutte le componenti sociali interessate a non proseguire un’esistenza in balia dei tempi e dei modi della riproduzione del capitale, della grande rapina del comune, del debito odioso e arbitrario. E il problema non sarà se e quando avverrà il punto di rottura delle soggettività con il capitale, ma come.


IL PIANO DELLO SCONTRO NON E’ MERAMENTE MILITARE, MA E' QUELLO DEL RAPPORTO TRA FORZA D’URTO DELLE CLASSI POPOLARI E CONTROLLO AUTORITARIO DELLA RIPRODUZIONE SOCIALE IN TUTTI I SUOI ASPETTI.

Tornando ai processi, come si può constatare in tutti e tre i casi, l'aspetto "militare" è inesistente, o molto limitato. Non è escludibile a priori, ma l'aspetto centrale nella contemporaneità, è nella forza di classe del popolo, è quella forza molecolare che nel villaggio globale del capitalismo si propaga attraverso la rete, si autorganizza, diffonde consenso al di là degli asfittici apparati mediatici di regime, corrode le strutture stesse del potere capitalista, cortocircuita i processi di accumulazione capitalistica, di appropriazione di ricchezza sociale, disobbedisce, autogestisce, si fa contro-stato, contropotere, potere costituente di una vita sociale che va oltre gli schemi imposti dal capitale globale.

In concreto, nel nostro paese, diviene persino sterile la polemica se la nostra Costituzione sia ancora valida oppure no. In concreto il potere costituente sussume anche i valori positivi di una carta creata da padri della nazione partigiani, perché quello che conta è una costituente che rimodella la società le sue relazioni in generale secondo la centralità del bene comune autogestito, del comune costituente e non del profitto e dell'estrazione privata e trasferimento di questo nelle disponibilità dei ceti ristretti del capitale finanziario, industriale e multinazionale, di una casta politica ormai omogenea nella gestione della res publica e collusa con i poteri criminali delle mafie, ben organici al sistema stesso.

La rivoluzione sociale proletaria è una lotta generale di democrazia, la più matura e la più giusta. Una battaglia sempre più necessaria.

Aprirsi a questa lotta significa portare i contenuti più maturi dell'autonomia di classe e dell'anticapitalismo nei settori dell'opposizione sociale che si riconoscono nell'attuale sistema democratico. Creare un fronte comune, una visione comune, un progetti comune, intervenendo nelle contraddizioni sempre più evidenti, presenti nelle basi delle organizzazioni politiche istituzionali.

Solo così si può portare sul terreno dell'autorganizzazione e dell'autonomia sempre più soggetti.

L’insurrezione è il momento più alto di democrazia esercitata dalla maggioranza del popolo. Su un muro di una piazza bolognese c’è scritto: “la legalità è illegale”. E’ precisamente così: la legalità non è un concetto asfittico, “fisso” e inamovibile, determinato dal legame con leggi “neutre”, ma è giustizia sociale e socialmente riconosciuta dentro un percorso di liberazione dalla tirannia salariata, debitoria, foriera di patologie e somatizzazioni.


ILLEGALITà DI MASSA COME LEGALITà COSTITUENTE.

Ma soprattutto la legalità, ossia quell’insieme di norme che costituiscono la base dell’esistenza e della coesistenza di una comunità, universalmente riconosciuta, non può più essere liturgia del controllo sulle esistenze stesse, ma riscrittura, in un processo di costruzione di un’altra società, delle modalità in cui avviene la condivisione tra soggetti, la solidarietà, la sovranità, il diritto di cittadinanza.
La questione della legalità e dell’illegalità di massa, dunque, non è solo un aspetto delle pratiche di lotta dei movimenti, ma uno dei fondamenti dell’ordine nuovo che si forma. Non tanto e non solo per gli inevitabili scontri di piazza e di violenza politica che si producono nel corso del conflitto sociale, ma per il processo di riappropriazione di spazi, di tempo liberato, cicli di produzione e dinamiche della riproduzione sociale, di merci e derrate, di ricchezza sociale, da parte del movimento del potere costituente in formazione.


CRIMINALITà DI STATO CONTRO SOLIDARIETà SOCIALE.

La legalità borghese è diventata fredda legge del più forte, nella fase più acuta del più selvaggio neoliberismo. Il processo costituente è nuova legalità, basata sulla solidarietà sociale, è calda legge della cooperazione solidale.
Dal capitalismo globale della dittatura finanziaria, non si può che uscire così. In tal senso, va sottolineata l’intuizione di Franco Berardi Bifo, quando afferma “... l’urgenza di mettere in moto il processo di ricomposizione sociale della forza lavoro cognitiva sperimentando nella rivolta la complicità affettuosa dei corpi, raggelati da decenni di virtualità e di competizione precaria” (Franco Berardi Bifo La sollevazione, pag. 122).

A parte la categoria un po' estemporanea di “complicità affettuosa”, il concetto di "solidarietà" (preferisco definire così la qualità delle relazioni alternative ai rapporti unilaterali, biechi, dogmatici che regolano la vita sociale nel regime del capitale, a cui allude Bifo), aggiungerei che abbiamo davanti un avversario che non esita nell’assassinio, nella guerra, nel terrorismo di stato, spacciando il suo sistema per democratico e persino “pacifico”.
Non abbiamo bisogno di costruire terrorismi speculari a quello dominante di regime, tribunali "del popolo", lubianke e vopos ai muri di cemento. Di più: non possiamo. Pena: lo snaturamento del processo di liberazione stesso. I servizi segreti, le mafie, i bombardamenti di civili, li lasciamo ai difensori della “legalità fredda”.

La nostra sarà la vittoria della società civile, quella autentica, non quella che ha in testa Napolitano, tutta acquiescente alle politiche di un governo eletto da nessuno, o eletto dalle caste partitocratiche.

Si tratta di una nuova Resistenza, dunque. Perché anche i partigiani erano banditi per il regime del tempo. Ma hanno saputo ricostruire un tessuto sociale connettivo, una solidarietà sotto i ferri delle torture e sotto le fucilazioni sommarie. Con un’etica che era la cifra del progetto stesso di Liberazione: senza torture come quelle dell’avversario, ma con una lotta senza tregua legittima, in condizioni di occupazione nazi-fascista.
A noi, nell’era del fascismo finanziario, non ci aspetta nulla di diverso. Cambia il carattere della “guerra”, ma la guerra sociale che in modo subdolo non ci è già stata dichiarata dal nemico (con forte coscienza di sé, coscienza di classe oppressiva, spregiudicata), dobbiamo solo annunciarla a chi fino ad oggi non l’ha riconosciuta, a chi non sa fare altro che competere tra simili, partecipare con disperazione alla guerra tra poveri.
E’ una lotta diversa per forma rispetto a 68 anni fa, diversa anche per il tipo di nemico. Ma il concetto è identico.

Pietà l’è morta. Democrazia borghese pure.

Vinceremo con la nostra umanità, che temprerà la nostra irriducibile forza di massa. La nostra capacità di costruire solidarietà, umanità, inclusione, gestione comune, riappropriazione sacrosanta di ciò che è della collettività, prodotto da noi, risorsa comune.

Il laboratorio creativo e conflittuale del potere costituente dal basso sta iniziando. Le lotte sociali in Grecia, Puerta del Sol in Spagna, Occupy Wall Street, Oakland ecc., sono solo le prime avvisaglie.

Un solo commento su ciò che molti epigoni dell’operaismo sostengono con il concetto di “tumulto”. Con una parola che riassume la questione: endemicità. Da aggregazioni temporanee conflittuali non nasce un progetto, ma un riprodursi acefalo di antagonismo aprogettuale, che sfocia inevitabilmente in una sorta di illegalità “in gabbia”, nell’uso “riformatore” di questa, nel quadro delle compatibilità sociali, di una lotta dal basso che non si alza forte. Che non si solleva.
Più che esaltare le manifestazioni di una conflittualità estemporanea, si tratta di darle un forte peso specifico per spostare rapporti di forza e con un’organizzazione stabile dal basso e “in progress” dell’esistenza e della lotta.

Non di semplici assalti ai forni si tratta. Ma ancora una volta, e questa volta con tutta la consapevolezza che le cose possono cambiare sul serio, di assalto al cielo.

Kalispera.


[appunto uno]
Rappresentanza.
Non esiste più. La partitocrazia e i sindacati corporativi sono parte del regime. Così come dopo il ’43 si creavano le formazioni partigiane Garibaldi, Matteotti, GL, ecc. e i partiti antifascisti rappresentavano la nuova società nascente, così oggi si può, anzi si deve parlare di una pluralità di posizioni politiche di varie tendenze, al di fuori dei partiti dell’arco post-costituzionale (PD e IDV inclusi), unificate su un programma generale, di cui l’opzione comunista non è detto che sia egemone. Se non si capisce questo, si continuerà a fare i gruppettari massimalisti. Dalla società italiana emergeranno posizioni politiche molto differenziate, ma tutte volte a resistere al neoliberismo selvaggio.
Occorre prepararsi a questo, senza pensare che per il solo fatto di “aver ragione” le masse ci seguiranno. Ci sarà anche da combattere sul terreno sociale contro il populismo di destra, reazionario, neonazista e leghista.


[appunto due]
le condizioni.
Le condizioni per uno sviluppo rivoluzionario sono:

1. Rotture sociali insanabili nella società, dovute a un immiserimento delle condizioni di vita della classe e delle masse popolari. Non a caso ciò avviene in concomitanza con crisi strutturali di sistema profonde, di guerre. La semplice ideologia non ha mai prodotto rivoluzioni, ma tutt’al più qualche tumulto momentaneo ed episodico.
In queste fasi abbiamo una polarizzazione delle classi in conflitto, con uno spostamento sul piano delle condizioni di vita di interi strati sociali intermedi (proletarizzazione, indigenza) verso il proletariato e uno stato di precarizzazione.

2. Di conseguenza l’attitudine delle masse a mettersi in gioco per cambiare la società in modo radicale e a sostenere il peso dello scontro con lo stato, la repressione di alto livello.

3. L’unità delle forze rivoluzionarie attorno a un progetto comune, una forte coesione anche sul piano dell’organizzazione e del coordinamento.

4. Un ampio consenso attorno alle forze rivoluzionarie da parte delle masse proletarie e popolari. Il clima rivoluzionario che attraversa anche culturalmente la società intera.

5. Una neutralità, se non una diretta simpatia dei ceti medi e di una parte della borghesia di regime stessa verso la rivoluzione e i rivoluzionari. Anche in questo caso: il clima rivoluzionario che attraversa culturalmente la società intera.

6. Un apparato statale e di polizia, dell’esercito, indebolito e attraversato dalle contraddizioni di classe e dalle tematiche del conflitto sociale.

7. Delle condizioni esterne che impediscano o ritardino i più che probabili interventi esterni di paesi alleati, o interventi opportunistici di potenze avversarie al nemico di classe, interessate a modificare il quadro strategico dell’area.

8. Legato al punto sette: l’internazionalizzazione del conflitto sociale, ossia l’estensione a tutta un’area economico-sociale di paesi del processo rivoluzionario, che spinge sulla difensiva (ogni stato si sgrugna con le sue...) gli apparati statali.
Nel caso attuale (crisi dell’Eurozona nella crisi sistemica del capitalismo globale), appare molto chiaro come i destini dell’Italia sono legati a quelli della Grecia, della Spagna, del Portogallo, sino al centro e nord Europa.

Se manca anche una sola di queste otto condizioni, la rivoluzione fallisce.
Ciò non significa lasciar perdere. Il potere costituente della classe può anche attestarsi in una “guerra di posizione” che capitalizzi la forza d’urto sociale raggiunta in conquiste politiche (costituenti), economiche, sui diritti, ecc. Un’avanzata sul terreno dei rapporti di forza tra classi, a favore delle masse proletarie e popolari.
I migliori riformisti sono sempre stati... i rivoluzionari. Mai stato vero il contrario.

domenica 12 febbraio 2012

L'ALTERNATIVA POSSIBILE (5a parte)


LA SINISTRA RIVOLUZIONARIA.

In Italia, la sinistra rivoluzionaria ha avuto un ruolo forte ed estensivo in interi settori sociali a cavallo degli anni '60 e '70 del secolo scorso.
Un fenomeno complesso e variegato, che ha portato allo scontro sociale per un intero ventennio e che è legato principalmente a due aspetti:

a) i limiti di analisi e lettura dei mutamenti del processo produttivo e della società capitalistici, da parte della sinistra storica, tutta proiettata alla conquista dei ceti medi sin dal dopoguerra e a un sindacato e a un partito che puntavano a influenzare le scelte dello Stato e delle forze del capitale in materia di economia e in particolare di politica del lavoro. Non certo a una rottura rivoluzionaria dell’assetto capitalistico. Il togliattismo, con la sua visione di democrazia progressiva e l'imprinting dell'ortodossia di derivazione staliniana, si è basato su una visione "imperfetta" del capitalismo, quasi fossero le forze del socialismo, nel mutare i rapporti di forza nel quadro di una società borghese, a costruire programmazione economica, visione generale dell'interesse generale. In realtà, la macchina del capitale, sarà anche imperfetta per gli interessi collettivi e nazionali, ma è perfetta per gestire gli interessi privati e per sussumere le leve del comando sociale e del controllo degli apparati dello stato, per sviluppare politiche economiche favorevoli alla massimizzazione dei profitti, e rimodellamento dei cicli di produzione e (come si è visto) e della composizione della forza lavoro dentro e fuori i luoghi della produzione.
Da questa distorsione togliattiana che è propria del partito comunista italiano di allora, finalizzata a riprodurre l'impianto staliniano-kominternista al di fuori dell'egemonia sovietica e a favore di un'internità originale ma sterile alla democrazia parlamentare borghese, nascono i limiti stridenti di analisi del capitale, della classe e quindi dell’azione politica del gruppo dirigente del PCI, prima a guida di Togliatti, poi di Longo e, alla fine, alla degenerazione iniziata con Berlinguer (rimando all'appunto uno a piè di documento).

b) Limiti che per forza di cose sono stati raccolti da chi ha iniziato un percorso nuovo, inedito, che ha rappresentato la sinistra rivoluzionaria più vitale e in stretta dialettica con le lotte sociali e i nuovi soggetti.
Siamo a cavallo degli anni '50 e '60. E' la genesi dell'operaismo. Quaderni Rossi e la sua inchiesta operaia, fino a Potere Operaio e Lotta Continua i primi anni '70 e ad Autonomia Operaia: l'esperienza in vero più originale e sicuramente più pericolosa per lo stato e il capitale, prima della degenerazione di alcuni spezzoni di movimento alla lotta armata e alla conseguente repressione statale di tutto il movimento, con epicentro dei colpi inferti l'Autonomia Operaia stessa (vedi il 7 aprile e oltre).

Dunque, da una parte i limiti di analisi, di prassi, di concezione dell'avanguardia nel rapporto con la classe da parte della sinistra storica, in particolare del PCI degli anni del dopoguerra e dall’altra operaismo, che nasce proprio all'interno (ma non solo) del campo comunista, costituiscono la base, il terreno fertile su cui è nata un’inedita configurazione della sinistra rivoluzionaria in Italia.

Tutto il resto: trotzkisti, bordighisti, anarchici, i partitini maoisti pronti a dividersi in tante linee colorate, lo stesso movimento studentesco nel filone Avanguardia Operaia, sono state solo fuffa. Solo una menzione moderatamente positiva su questi ultimi del MS e di AO, ma soltanto perché hanno raccolto nella situazione concreta delle università in fermento l'azione politica delle avanguardie del movimento studentesco nel '68. Di fatto, sul piano dell'analisi hanno solo saputo riprodurre i classici in modo pedissequo e dottrinario. E, finita l’esplosione sociale del biennio ’68 e ’69, sono rifluiti in esperienze che di rivoluzionario avevano ben poco, fino all’esperienza di Democrazia Proletaria.

Sempre in quegli anni, un discorso a parte lo meritano le Brigate Rosse, che però hanno rappresentato nella sinistra rivoluzionaria l'importazione delle esperienze che si rifanno al “foco guerrillero”, i Tupamaros in particolare, come forma di un conflitto elitario, seppur a presenza operaia e proletaria, privo però di masse armate insurrezionali, in una sorta di scontro tra apparati in un'Italia e un sistema mondo che andavano verso una ristrutturazione capitalistica e che vedeva mutati i soggetti sociali. Il partito armato per definizione, che non vive la composizione sociale, che analizza la fase secondo schemi terzointernazionalisti di categorie ontologicamente indiscutibili, la cui azione sarebbe sufficiente a spostare equilibri e rapporti di forza (in peggio vien da dire!): che cosa può essere se non la variante togliattana del partito ortodosso, ma con la pistola?

Al di là dei libretti rossi nell’Italia della seconda metà del Novecento, c'è stata solo la feconda comparsa dell'operaismo.

Sgombriamo dunque il campo da tutto ciò che si è connotato come sinistra rivoluzionaria, ma che non ha saputo essere all'altezza per dogmatismo, per prosecuzioni di di battaglie politiche anacronistiche, tutte interne al movimento comunista, ma di altri contesti e di altre epoche.
Inoltre, dalla chiusura dello scontro sociale degli anni ’70, non si è prodotto più nulla di significativo. Sulla scena politica ha fatto il suo ingresso Rifondazione Comunista: un tentativo di coniugare ciò che restava del conflittualismo rivendicativo indisponibile al neonato PDS, con una sinistra di classe ormai devitalizzata dai soggetti che avevano animato lo scontro sociale degli anni precedenti, decimati dalla repressione. Correnti e conventicole che da allora stanno continuando a scindersi e a rifondarsi, in un balletto autoreferenziale inconcludente. Al di là delle mene bipolariste di Veltroni, la fine a residui in percentuali da stronzio nella minerale se la sono cercata i gruppi dirigenti, i Ferrero, i Bertinotti, i Diliberto, i Rizzo, piccoli burocrati rossi, alcuni dei quali vediamo ancora aggirarsi con calcolato tempismo attorno a Monte Citorio durante le puntate di Striscia la Notizia, dopo essere stati sbattuti fuori a calci in culo dal Parlamento.
La sinistra rivoluzionaria dei giorni nostri non è certo lì.

A ripercorrere questa vasta varietà di fenomeni tutti italiani a cavallo dei due secoli, occorre recuperare una nozione autentica di sinistra rivoluzionaria per ridefinire un ambito senza ambiguità e reducismi. La sinistra rivoluzionaria è tale se si pone come forza progettuale rivoluzionaria, come organizzazione autonoma di classe nel processo conflittuale contro le forze del capitale. Se la sua visione di processo rivoluzionario pone lo spostamento dei rapporti di forza tra classi sul terreno della conquista del potere politico, della distruzione dello stato borghese e dello sviluppo e affermazione degli istituti del potere popolare e di classe.
Poi si può parlare di forme della politica, di tattica e di strategia. Si può sviluppare un’analisi della situazione storica e concreta, della composizione di classe. Ma la conditio sine qua non è questa.
L’altro elemento di identificazione e (prima ancora) di identità, è l’essere altra cosa della sinistra rivoluzionaria rispetto ai partiti comunisti e alle forze antimperialiste e anticolonialiste di impronta nazionalista. Questo dato è vissuto in un conflitto molto aperto con il PCI in Italia, ma non è andata diversamente in altri paesi: il MIR in Cile, l’IRSP-INLA in Irlanda, il FPLP e Fatah, le organizzazioni di guerriglia latino-americane e i partiti comunisti, spesso con rapporti di stretta contiguità, ma con differenze forti con le ortodossie e i nazionalismi, soprattutto nel forte riferimento alla classe operaia e al proletariato da parte delle sinistre rivoluzionarie e a produrre esperienze inedite di autogestione proletaria, di sindacalismo rivoluzionario, persino di forzatura combattente.

Vediamo dunque più in specifico cosa significa essere sinistra rivoluzionaria oggi in Italia, riprendendo il filo rosso dell’impianto operaista, come base di partenza per una lettura della società odierna, italiana e del sistema mondo, del capitalismo globale, della classe, della fase, delle forze in campo, della crisi sistemica. E, soprattutto, delle grandi opportunità che quest’ultima apre per lo scontro sociale e per un primo esito che sposti equilibri e riporti sotto attacco (in questa prima fase) le forze del capitale da parte dell’autonomia di classe e di lotte sempre più vaste e aspre. Qui, nella nostra bella Europa.


L’OPERAISMO.

Levato il caglio, la crema della sinistra rivoluzionaria che resta è l'operaismo.
Come già esposto, da qui si tratta di ripartire, per riprendere il percorso interrotto di una sinistra rivoluzionaria all'altezza della situazione attuale, almeno sul piano della conoscenza della realtà economico-sociale e dei suoi mutamenti. E questi brevi appunti che seguono (e che vanno presi come notarelle sparse, prive di una sistemazione organica, non ancora inserite in un discorso ben strutturato), rappresentano semplicemente un modesto contributi su alcuni temi che sono stati propri dell'operaismo.

Operaio sociale e rifiuto del lavoro, la loro ri-attualizzazione muove su due direttrici:

a) LA SCOMPOSIZIONE DI CLASSE, individuando i soggetti (marxianamente per la posizione che occupano nella produzione e riproduzione sociale) che costituiscono la classe oggi, il proletariato sociale che subisce la precarizzazione non solo del lavoro, ma della vita stessa, nell’estensione della valorizzazione del capitale oltre la produzione stessa. Già con le analisi sull’operaio sociale, premessa e genesi dell’Autonomia Operaia, avevamo dato la chiave di lettura giusta, su dove il capitalismo nelle sue aree più avanzate, l’Occidente, stava andando.
La precarizzazione non può essere solo intesa come precarizzazione del lavoro, ma come esistenza precaria di un soggetto sociale diffuso e scomposto, parcellizzato nella miriade di attività e comportamenti dalla produzione a l consumo, che sono parte organica dell’estrazione di plusvalore e di redistribuzione della ricchezza sociale, di trasferimento di profitto. L’attualità dell’operaio sociale, o sua ri-attualità, che oltre alla congiunzione tra fabbrica e territorio, produzione ed estensione sociale della valorizzazione, lavoro cognitivo ed entertainment (adesione/consumo mediatico di valori dominanti nei binari del pensiero unico), oltre in altre parole alla subordinazione dei soggetti alle funzioni dirette della produzione sociale (estesa al consumo sociale), si aggiunge la subordinazione ai flussi di profitto, alla finanziarizzazione dell’economia produttiva stessa, del capitale sociale ridotto a debito pubblico, nella forma dell’indebitamento permanente e crescente.
Queste due forme di subordinazione, suddivise schematicamente per meglio analizzarle, compongono in realtà un’unica forma totalizzante di esistenza sociale e individuale dei soggetti, la forma di subordinazione del proletariato sociale scomposto e frammentato, la nuova schiavitù imposta alla maggioranza delle società occidentali dalle oligarchie sovranazionali del capitale finanziario dominante e le sue cricche corporative e partitocratiche locali (le nuove banana republic, caste “bananiere” al servizio dei potentati finanziari e dei gruppi multinazionali finanziarizzati).
La crisi, nell’immediato, è solo un’opportunità in più che si pone il capitale per ristrutturare l’organizzazione del lavoro, la sua divisione sociale. Di più: l’intera esistenza sociale al servizio della realizzazione e allocazione del profitto.
Dunque, con l’analisi operaio sociale, l’operaismo si conferma la semina più feconda dell’analisi marxiana, se oggi possiamo portare l’analisi stessa della creazione di valore, del.la realizzazione del profitto e della composizione sociale di classe a una lettura adeguata della situazione attuale. Occorre pertanto andare oltre l’operaio sociale, proseguendo il metodo e l’analisi operaiste dell’evoluzione della scomposizione di classe iniziato negli anni ’70 del secolo scorso.


b) IL RIFIUTO TOTALE DELL’ESISTENZA AL SERVIZIO DEL CAPITALE GLOBALE
In questo momento di forte crisi, di disoccupazione dilagante e di precarizzazione sempre più estesa, parlare di rifiuto del lavoro, quando milioni di proletari sono alla ricerca di un lavoro per la sopravvivenza, significa solo una cosa: farsi madare a spendere.
Ma questo punto, ben focale del pensiero operaista, non è inattuale, attenzione. Va calibrato in funzione dei punti centrali dello scontro sociale e delle aspirazione generali della classe. Va esteso all’indisponibilità di essere soggetti alienati ai tempi e ai modi della produzione e riproduzione sociale del capitale.

Poiché il lavoro in sé non è più l’unico terreno della valorizzazione dl capitale, non è l’unico ambito in cui si definisce il corpo sociale della classe, il rifiuto del lavoro si dilata in ogni ambito della società, arriva in ogni interstizio del “sociale”, nell’era del capitale globale integrato e della finanziarizzazione di ogni processo economico il rifiuto del lavoro diviene compiutamente rifiuto a essere soggetti funzionali a questo meccanismo perverso sopra descritto, oggi rifiuto del lavoro è rifiuto totale a essere precari, rifiuto a essere debitori, ossia soggetti che attraverso l’alienazione imposta dal capitale sono deputati dal capitale stesso ad assumersi l’onere (spacciato per onore da Napolitano & C.), del flusso unilaterale della ricchezza sociale dalla collettività ai conti bancari e alle speculazioni delle oligarchie finanziarie. è rifiuto a essere sfruttati nelle forme di sfruttamento contemporanee e vigenti, quando salta la nozione stessa di “proletario”, colui che non ha più neppure i mezzi di sussistenza per mantenere se stesso e la sua prole in quanto tali.
Per questo diviene immediatamente politico, poiché assume in sé il rifiuto conflittuale al capitalismo stesso per come oggi si impone, per come oggi ha invaso ogni ambito del sociale. Per come oggi ci distrugge la vita senza mediazioni e falsi solidarismi di facciata.
Perché questo rifiuto totale e assoluto a essere servi, mette direttamente in discussione, senza le mediazioni di un “politico” estraneo ed esterno ai processi conflittuali concreti, il capitalismo in quanto tale, le sue forme di comando economico, politico, mediatico, psico-cognitivo e culturale di pensiero unico. Sul piano ontologico è irriducibilità allo stato puro.
(Detto per inciso, è questa la vera chiave di lettura del conflitto tra movimenti emergenti e partiti di pseudo-sinistra, come dell’estraneità congenita della sinistra così detta radicale, dai processi conflittuali, della sua presenza del tutto parassitaria e aprogettuale nei movimenti stessi).

Dunque, si tratta di andare oltre il “rifiuto del lavoro”, cogliendo una dimensione più globale e totalizzante dello sfruttamento e dell’alienazione capitalistica.
Chiedere lavoro, chiedere stabilità del lavoro, chiedere migliori condizioni di lavoro, più salario non sono parole d’ordine obsolete, sono uno dei terreni in cui ci si riappropria di esistenza (certo, non ancora liberata, ma ricomponente sul territorio dei soggetti frammentati), di reddito, di ricchezza sociale. Sono il grimaldello per aggredire i meccanismi automatici di appropriazione di plusvalore, se legati agli obiettivi forti di più salario meno orario, lavorare meno lavorare tutti, di reddito di cittadinanza garantito. Se il lavoro vivo si riduce, non per questo ciò significa che sparisca. Consideriamo la tendenza generale nel sistema capitalistico globale a un aumento della classe operaia e del proletariato, soprattutto nei paesi dove sono stati esportati i cicli di produzione dell’Occidente e dove attualmente è in atto una crescita del capitale produttivo a tecnologia evoluta.
Ma consideriamo anche i paesi a capitalismo avanzato, dove assistiamo a uno smantellamento dei cicli produttivi e di interi comparti (si pensi in Italia all’industria automobilistica, dell’elettronica e degli elettrodomestici, petrolchimica e siderurgica, solo per citarne alcuni di significativi) e persino alla flessione del terziario stesso (volano negli anni ’80 del ‘900 della polarizzazione sociale tra crescita di una base sociale corporativa e della riduzione ad attività salariate precarie, prive di tutele e de-sindacalizzate in servizi scarsamente professionalizzati, mentre le produzione andavano all’estero), il lavoro vivo è ancora vasto e presente (per esempio: si provi a far fare alle sole macchine la costruzione di un palazzo, o la bonifica del territorio). Quindi, in tempi di deflazione e immiserimento, la parola d’ordine del “rifiuto del lavoro”, rischia di restare nell’ambito della sua astrattezza, corretta solo per l’analisi della tendenza, ma inidonea in sé per vivere nella situazione concreta.

Il rifiuto del lavoro, in definitiva è rifiuto di essere salariati in quanto tali, rifiuto di essere produttori e riproduttori del sistema di accumulazione capitalista, alienante e criminale, ha una portata strategica, ma che va poi applicata nella concretezza dello scontro sociale e non pedissequamente per quello che è.

Il lavoro, con le sue mille forme estese in ogni ambito sociale, deve cambiare e con esso il suo controllo.

Lavoro non più in funzione del profitto, ma del comune. Non più nei tempi e nei modi dettati dall’accumulazione del capitale, dall’estrazione di plusvalore, dalla realizzazione del profitto. Ma nei tempi e nei modi dati dalla collettività, dai suoi bisogni, con la rotazione, per esempio, nei lavori inevitabili più usuranti.
Controllo da parte del comune, della classe proletaria, più in generale degli istituti del potere popolare, che lo autogestiscono in base alle necessità collettive, della società nel suo complesso.

Appropriarsi del lavoro significa cambiarne funzioni e modalità, rimodellandole in funzione di una ritrovata solidarietà sociale, bene comune, intelligenza collettiva. Cosa diversa dalla transizione socialista, dove la classe operaia, attraverso il “suo” partito (o meglio dire: il partito, attraverso la “sua” classe operaia) gestisce i processi di produzione senza cambiarli di una virgola (ecco da dove nasce la classe burocratica beneficiaria del profitto realizzato, anche conto terzi, vedi la Cina). L’ideologia della produttività, non è un caso, è uno dei tratti significativi del pensiero unico sia nel capitalismo, che nel socialismo. Non è autentica socializzazione dei mezzi di produzione.




[appunto uno]
Riprendiamo in considerazione la polemica sulla “dittatura” del partito, posta dal comunismo di sinistra degli anni ’20 del secolo scorso. L’autonomia del partito dalla classe, ossia la piena identificazione del partito come luogo, diremmo più specificamente come gabbia in cui la classe si organizza e agisce (nel sindacato di partito, per esempio), è alla genesi della deviazione ideologica verso i ceti medi e dei settori neocorporativi delo PCI negli anni ’50 del ‘900.
E il “politico” alieno alla classe stessa riassume questa separazione tra avanguardia e classe, che nei momenti di scontro sociale diviene conflitto stesso.
è quanto è successo tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Non un mero rapporto di conflitto politico tra sinistra rivoluzionaria e PCI si tratta, ma di assunzione da parte del PCI di un ruolo vicario e complementare al controllo politico e sociale del capitale sull’antagonismo operaio e sociale di classe.
Non è un caso che l’operaismo affiori nella scena politica italiana, quando il PCI approda più compiutamente a questo ruolo di “istituzionalizzazione” delle istanze operaie, di un contenuto rivendicazionismo sindacale che non mette in discussione l’essere salariato in quanto tale e i meccanismi dell’accumulazione capitalistica, dello sfruttamento di fabbrica e le condizioni sociali del proletariato, nonché di una sussunzione del “politico” nelle burocrazie del partito, creando un filtro tra azione politica che scaturisce dalle istanze dal basso e azione elitaria mediante la partecipazione parlamentare e la gestione dall’alto di sottosistemi del pubblico (pubbliche amministrazioni) e del privato (cooperativismo).
Era inevitabile che controllo politico e sociale e integrazione di questi sottosistemi eterogestiti dalle burocrazie alle esigenze di valorizzazione del grande capitale (vedi la gestione dei servizi, il sistema degli appalti, ecc.) fossero un tutt’uno organico parte di un’unica grande trasformazione della sinistra storica a opzione interna al sistema capitalistico.

CRETINISMO BERLINGUERIANO
La storia successiva di ciò che il PCI è diventato: PDS, DS e PD (con parti della vecchia Democrazia Cristiana e dei socialisti), la sua adesione al neoliberismo, è parte dell’involuzione a livello europeo della casa socialista-laburista, ma soprattutto è un fenomeno tutto italiano. A ciò ha portato la deriva togliattiana e post-togliattiana, con buona pace di tutti i vari sdoganatori di Berlinguer, semplicemente perché aveva fatto la “voce grossa” contro l’immoralità e la corruzione della politica. Come un pastore cretino che sbraita per l’uscita nottetempo delle pecore dal recinto, quando LUI in realtà ha lasciato aperta la porta.
è infatti impensabile considerare l’occupazione del “politico” come fatto alieno da ogni istanza sociale dei luoghi pubblici e dello stato, il suo inciucio (tanto auspicato da Togliatti) con settori della borghesia, ceti medi professionali, produttivi e dei servizi, delle banche e del capitale, come impermeabile alla corruzione. Tutto il contrario! La criminalità organizzata e la corruzione sono, infatti, parte essenziale delle modalità attraverso le quali la borghesia e il capitale si appropriano di profitto, se lo spartiscono. Sono proprio il terreno principe attraverso il quale la ricchezza sociale e il bene comune, i denari della collettività ottenuti dal fisco, vanno a finire nelle tasche di burocrati, imprenditori corrotti, grandi aziende che realizzano opere inutili, se non dannose. Così come il riciclaggio dei proventi delle mafie associa danaro pubblico, appalti pilotati, in cordate oscene. Una zona grigia che Berlinguer non ha saputo o voluto leggere.