mercoledì 25 aprile 2012

Aldo dice 26x1, ogni giorno. LA NUOVA RESISTENZA.





Nella giornata della Liberazione, il 25 aprile, il modo migliore per celebrare la Resistenza è continuare la lotta iniziata dai nostri padri 69 anni or sono.
Oggi siamo chiamati a una Nuova Resistenza perché il sistema che ci ha retto dal dopo guerra ad oggi sta collassando, sempre più incapace di garantire una sopravvivenza dignitosa ai popoli e alle classi popolari e salariate. Non solo incapace: cieco nel massacro sociale che compie, nella sua reiterazione, delirante default, di rullo compressore, garante per algoritmi (come sostiene giustamente Bifo) dei flussi di ricchezza in forma di danaro ai centri della speculazione, banche e multinazionali finanziarizzate. Cieco e delirante di un lucido delirio, di fronte alla devastazione che sta provocando nei corpi sociali, nelle prospettive di vita fagocitate dalla logica del debito e dei suoi diktat sui soggetti e sulle comunità.

Dobbiamo tornare nelle fabbriche, nelle piazze, nei quartieri, in ogni momento della nostra vita individuale e della vita collettiva a lottare per un futuro liberato dall'oppressione sempre più selvaggia del neoliberismo e dalla guerra che sta pervadendo ogni ambito dei rapporti sociali. Una guerra non dichiarata, com'è nello stile dei dominatori che attaccano paesi e bombardano popoli spacciando la rapina per progresso e il sangue sparso per democrazia esportata.
Dietro concetti come "rigore" e "crescita", c'è tutto il peso di disegni politici che di neutrale non hanno nulla: l'attacco ai diritti del lavoro, ai diritti sociali, alle condizioni di vita della popolazione a partire dal proletariato, operai, lavoratori salariati, giovani precari, pensionati, donne, è di fatto una vera e propria guerra sociale priva di sbocchi positivi: quello che ci stanno togliendo, le conquiste avute dal dopoguerra per tutta la fase lunga dello sviluppo dell'accumulazione capitalistica post-bellica, ci tornerà più, non ci sarà crescita. Il capitalismo di guerra è anche macchina di guerra interna. 

In particolare, dobbiamo prendere atto che il patto costituzionale nato nel '47 e che ha fatto da corollario alla pace sociale nei paesi della cordata capitalistica dell'Occidente NATO e dell'Europa, con tutte le sue politiche di welfare, di diritti e tutele dei lavoratori e delle fasce sociali più deboli NON ESISTE PIU'. Oggi la governance è in mano a organismi sovranazionali in capo alle élite finanziarie dominanti.
Il nostro futuro dobbiamo ridisegnarcelo noi. E costerà sangue e repressione. Questo intervento che segue vuole solo essere una piccole riflessione sul panorama tragico che ci avvolge, introducendo alcuni cncetti importanti per affrontarlo.


LO SCENARIO DI CRISI. L'INVOLUZIONE DEL CAPITALISMO, IL DECLINO.

Non credo ai corsi e ricorsi storici. Penso piuttosto che il sistema capitalistico abbia nella guerra una tendenza che pertiene le sue crisi di sovrapproduzione di capitali e merci. Un'opzione sempre presente nelle politiche del capitale, dei sui esecutivi di governance nazionali o di blocco (vedi la NATO). Può essere una guerra tra potenze imperialistiche, aperta e dispiegata, come nel caso delle due guerre mondiali del secolo scorso, oppure può essere una condizione permanente per mantenere o alterare aree di influenza, risorse energetiche, materie prime, rapporti di forza tra potenze imperialistiche. In questo caso, abbiamo interventi bellici diretti contro lo "stato canaglia" di turno, gestiti dai media e dalle forze di regime, "neocon" o "dem", come "missioni umanitarie", o guerre per procura come i grandi genocidi africani (Sudan i Congo per esempio). Dalla seconda guerra mondiale in poi, si può dire che questa situazione fatta di guerre e di conflitti nelle aree calde del globo, sia stata una costante. Anche quando la configurazione dei sistemi politici, economico-sociali, si è andata modificando sul finire del secolo con il crollo del socialismo reale, il sistema capitalistico ha evidenziato la guerra come modalità di riproduzione del sistema stesso, dei rapporti di dominio del capitale sul lavoro, del capitale sulla riproduzione sociale nelle diverse aree del pianeta, come altra faccia delle transazioni finanziarie, come l'unico welfare che si mantiene inalterato nell'epoca stessa del neoliberismo selvaggio, quello dei complessi militari industriali. Di dominio del capitale sul piano semiopolitico, con l'imposizione etico-sociale, attraverso i media, di valori meno lineari del bellicismo patriottico fascista e nazista, ma molto efficaci attraverso la falsificazione della realtà (le ragioni della guerra) e di chi attacca e difende (civiltà delle democrazie liberali contro integralismi).
Oggi però è cambiata la "qualità" della crisi. Quando si parla di crisi di sistema ci si riferisce a una crisi strutturale che cambia passo e diviene irreversibile. Quando un sistema si basa su una crescita infinita che non è più possibile: nell'accumulazione di capitale, nella valorizzazione della forza-lavoro, nella crescita dei profitti, nel rapporto con le risorse del pianeta che vanno ridimensionandosi fino alla scomparsa, questo sistema è di fatto già in declino. Il problema è che gli artefici non lo sanno e si ostinano a riprodurre lo stesso modello di produzione e di consumo, lo stesso approccio sull'impatto ambientale delle forze produttive e dei rapporti di produzione, forzano sul terreno della finanziarizzazione le dinamiche di realizzazione dei profitti, giungendo a un'economia drogata, dove il capitale finanaizario, in proporzione a quello industriale, è molto più ampio, crese a dismisura e, tra bolle che scoppiano e "cure da cavallo" che portano a recessioni, saltano le mediazioni sociali, la convivenza civile fin qui avuta, pur con tutte le sue contraddizioni.
Oggi assistiamo all'avvento di manovratori prezzolati come Papademos e Monti, cavalli di razza provenienti dalle scuderie del capirale finanziario dominante. Scostano l'autista e prendono il volante. La vecchia politica muore come governance e resta come distribuzione di appalti, clientele, cariche nel nostro Comune, nelle PA. Siamo alla prima fase, quella del "ghe pensi mi" in salsa di wall street o franco-tedesca.
Poi ci saranno le truppe d'assalto su chi oserà "fiatare". Poi ci sarà la risposta selvaggia, il ritorno al campanile, razzista di una reazione che prenderà in mano la bandiera dei cittadini, tutti attorno al campanile, per sparare all'immigrato "che ruba il lavoro" e allo stato "che gli dà la casa".
Ma c'è e ci deve essere una terza opzione: quella della società civile che non crede più alle favole dei pifferai della Goldman Sachs, ma neppure al populismo forcaiolo della scorciatoia padana o pseudo-comunitarista stile Forza Nuova.
Perché questo declino, se non trova una strada alternativa al capitale, internazionalista e solidale, sarà pieno di conflitti, totalitarismi e soprattutto di guerra esterna e interna.
Partiamo proprio dalla guerra.


 LA GUERRA E' NELLE COSE, FINCHE' CI SARA' IL CAPITALISMO.

La guerra c'è ma non la si definisce in quanto tale. C'è, ma non la si vede nella sua tragicità per le popolazioni che la subiscono. Questo affinamento della guerra prolungata, di bassa intensità, per procura, per mezzi tecnologici dall'alto, è il risultato del percorso che la politica bellica, insista nel capitale e nel suo comando politico, ha fatto in decenni di deterrenza nucleare. Oggi la risposta che i centri del potere capitalistico si danno alla crisi del capitale, è un insieme di misure volte alla massimizzazione dei profitti nel rapporto capitale lavoro, nel controllo delle varianti politiche internazionali sui processi di delocalizzazione produttiva, nella finanziarizzazione dell'economia (D-D') e nella guerra come distruzione di capitali e di merci eccedenti costante (e altrui), come imposizione di un un'organizzazione e divisione sociale del lavoro, come esproprio e rapina di risorse e materie, come controllo di aree e flussi commerciali, come forte influenza sull'andamento dei mercati finanziari. Non è un caso che anche nei paesi più in crisi, il bilancio per la "difesa" viene persino incrementato. Persino il commercio di armamenti imposto: vedi una Germania e una Francia che bastonano il can che affoga greco, dopo che gli hanno imposto l'acquisto di aerei da combattimento per 13 (credo se ben ricordo) mld di euro! Pertanto, la realtà che ci troviamo davanti vede nella guerra la dominante della politica del capitale, de suoi esecutivi, dei gruppi monopolistici e multinazionali dominanti (vedi la Trilateral e il Bilderberg). Così come hanno pensato bene di far implodere con la crisi del debito pubblico i sistemi a democrazia rappresentativa, concentrando le decisioni di governance generale a pochi organismi sovranazionali (a livello europeo, per esempio e che ci riguarda da vicino) e ad alcuni gruppi di potere informale, i think tank, i "tecnici", già nei primi paesi (Grecia e Italia in primis), certamente la guerra sociale come "missione umanitaria" per il pareggio di bilancio, il massacro sociale a fin di bene, è l'ulteriore passaggio per consolidare il golpe delle élite finanziarie nell'architettura delle relazioni tra paesi e tra esecutivi di governo. Mettere in Costituzione il pareggio di bilancio significa affermare l'insostenibilità di qualsiasi politica che metta in discussione la centralità dei mercati, ossia l'appropriazione del bene comune, della ricchezza sociale da parte di questi gruppi finanziari. Sicuramente, per fare questo, la macchina di propaganda, i centri di produzione e orientamento del consenso sono già al lavoro. A suo tempo, per attaccare senza dichiarare guerra, determinati paesi, i centri di potere USA e NATO si sono mossi delegittimando i governi avversari (non entro nel merito del carattere politico spesso reazionario e fascista di tali regimi, è irrilevante per il ragionamento che faccio). L'avversario diviene un criminale, la guerra è operazione di polizia internazionale con l'avallo del Tribunale dell'Aja.


LA GUERRA SOCIALE NON DICHIARATA

Ecco, oggi, nella guerra sociale ai movimenti d'opposizione, la criminalizzazione passa nell'accusa di "antipolitica"... "eh, fa antipolitica, dunque non mi ci rapporto!" Questa operazione di delegittimazione è organica alla guerra sociale non dichiarata alle realtà dell'antagonismo politico-sociale. Il caso più eclatante è il movimento NoTav, ma anche il 5 Stelle (anche qui, su Grillo non entro nel merito) subisce questo trattamento. Con la caduta dei patti sociali, non essendo più questo il piano di governance del comando del capitale, la pace sociale diviene guerra sociale, senza riconoscere l'avversario perché non vanno fatti prigionieri, non devono esserci mediazioni. E qui vendo al "Nuovo Soggetto Politico". Se ci limitiamo a difendere ciò che non c'è più: i patti sociali e con essi l'impianto costituzionale che ha fatto da sfondo e stimolo alle politiche di redistribuzione della ricchezza sociale, di tutele e potere contrattuale operaio, di salari che definivano il livello di controllo dal basso delle organizzazioni della sinistra e del sindacato, le aristocrazie operaie e i ceti medi che costituivano la base sociale dominante del patto, il welfare come politica economica dello stato-piano, ossia: del mondo occidentale, e italiano dopo la seconda guerra mondiale, la nostra sarà una battaglia di retroguardia. Per carità: compagni che si mettono il fazzoletto rosso e nel bel ricordo della Resistenza ci parlano di Costituzione, sono comunque romanticamente alleati naturali. Ma il punto è un altro: costruire qualcosa di nuovo, che sia alternativo a tutto ciò che c'è stato sin'ora. Partire dal disagio sociale che serpeggia per riappropriarci di reddito, di beni comuni, per liberare energie e soggetti dal comando, dal lavoro e dal tempo del capitale. Non ci sono socialismi che torneranno a prezzare il lavoro salariato.


LA LIBERAZIONE DAL CAPITALE COME REALTA' PERVASIVA NELLA NOSTRA VITA.

Dobbiamo riprenderci la nostra vita facendo saltare in tutti modi gli schemi dell'accumulazione capitalistica, dei profitti. Liberare la società da quella che è oggi più che mai una peste: il declino inesorabile del sistema capitalistico. Lo hanno capito anche gli esegeti del denaro. Perché sarà un declino non certo indolore. Abbiamo esempi di autogestione operaia nel mondo, abbiamo esempi di gestione del comune, di cooperazione tra soggetti, parti della società. La parole chiave, non solo nella ricorrenza del 25 aprile, è LIBERAZIONE. E' un atto creativo che difficilmente può essere collocabile in un mero "attacco al palazzo". Ma la nostra presenza nei movimenti deve trovare senso, in base ai livelli conflittuali dati, proprio in un progetto di liberazione che si configurerà in una miriade di pratiche, probabilmente individuabili nel momento steso che si produce conflitto e alterità nei desideri e nei progetti di vita. Per questo, la presenza comunista (è un termine che mi piace ancora) vive in una rivoluzione culturale dal basso.
Forse oggi l'egemonia gramsciana si realizza così. Un pezzo di rete divelto in Valsusa è un muro che crolla, è un fatto culturale, non solo politico. Il lavoratore che non ha speranza di riavere il suo lavoro e che capisce che il reddito di cittadinanza è un DIRITTO, soprattutto davanti a chi il reddito ce l'ha da parassita, nella rendita da denaro per denaro, è un passaggio culturale, un antidoto al mito del lavoro, all'autocelebrazione proletaria. E' inutile che ci giriamo attorno. Dobbiamo pensare alla transizione, perché la transizione è già in atto. La pipa di Lama e i sacrifici di Amendola devono uscire dalla storia dei movimenti sociali e sindacali. Cosa faranno gli imminenti e auspicabili consigli operai e popolari che si formeranno nella lotta, dal basso? Come si eserciterà la democrazia diretta? Si può parlare di potere costituente se si torna sempre su un potere costituito che non c'è più, o che è in cancrena?

mercoledì 18 aprile 2012

L'ALTERNATIVA POSSIBILE (7a parte)

IL MODERNO PRINCIPE DEL POTERE COSTITUENTE.
La forma partito è ancora attuale? E il socialismo lo è mai... Stato?


Nell'era della produzione del capitale come produzione e riproduzione del sociale, quindi della forza-lavoro sociale, della composizione di classe frantumata e multiforme, della produzione di valore estesa in ogni ambito della vita sociale e dei singoli individui, del tempo-vita dei soggetti, altre devono essere le forme di organizzazione politica emergenti e sintesi del conflitto sociale. La forma partito ha fatto il suo tempo.
La forma partito, i partiti e le associazioni socialiste di massa, così come i sindacati, erano le forme storiche con le quali la classe si è rappresentata, delle composizioni sociali di classe incentrate dapprima sul lavoro bracciantile nelle campagne, operaio nelle fabbriche e nelle officine del periodo che va dall'800 a primi del '900.
La coscienza apportata dall'esterno era l'elemento attraverso il quale attivisti provenienti in buona parte dalla borghesia prendevano parte alla lotta di classe. La questione è ben espressa negli scritti di Lenin sul POSDR e sul bolscevismo.
Poi successivamente, con il pre-fordismo e il fordismo, la spinta data dalla forte conflittualità sindacale negli Stati Uniti, in Europa e dalla nascita con la Rivoluzione d'Ottobre, la forma partito ha assunto le caratteristiche dei partiti rivoluzionari comunisti, del partito leninista, proseguita per tutta l'era dell'operaio massa.

Il partito comunista ha rappresentato un elemento di emancipazione delle soggettività del lavoro salariato, nell'attività militante e di formazione teorico-politica. Emblematico il lavoro fatto dal PCI anche sotto il regime fascista, nelle carceri, dove migliaia di operai, braccianti, artigiani, impiegati si istruivano: le future leve della Resistenza Partigiana.
Ma la forma partito leninista ha rappresentato anche i limiti di una visione del processo rivoluzionario, dove l'autonomia del politico dell'avanguardia portava a una separatezza tra masse e partito, a un'egemonia del secondo sulle prime: elemento necessario per sviluppare la traiettoria del socialismo, ossia dell'appropriazione burocratica dei mezzi di produzione e delle forze produttive, nella produzione di plusvalore, di autosfruttamento a controllo statale della classe operaia e della classe contadina.
Questi limiti sono stati già ben evidenziati dalla teoria politica operaista, che non nega il ruolo dell'avanguardia politica nello sviluppo della lotta di classe, ma la inscrive dentro il percorso della classe, da classe in sé a classe per sé, nel processo di autovalorizzazione operaia dentro la riproduzione sociale.
Ritengo che da qui occorra ripartire, per rifondare una teoria dell'organizzazione rivoluzionaria, in dialettica con l'espansione del corpo sociale proletario nella riproduzione sociale e nella valorizzazione globale del capitale.

Dall'operaio sociale alle mille forme dei soggetti subalterni, del precariato e del lavoro salariato, subordinato al comando del capitale, all'egemonia del denaro e del debito sulle vite e sui soggetti.
Analizzare la nuova composizione di classe nell'era della crisi di sistema del capitale, significa riconiugare anche una pratica costituente dell'antagonismo anticapitalista e della cooperazione sociale, della riappropriazione di tempo/vita, di bene comune, di ricchezza sociale, di cicli di produzione riformulati a misura del comune.
Una riconiugazione che oltrepassa le vecchie forme di rappresentanza novecentesche, espresse nella forma partito e sindacato, che rimetta al centro il protagonismo politico dei movimenti di massa, come volano del consiliarismo, della democrazia diretta costituente, non a latere della democrazia rappresentativa già distrutta dai dispositivi di comando reale dell'oligarchia finanziaria, ma come percorso di sovversione sociale e politica, di presa del potere da parte del proletariato e dei ceti sociali subalterni, precarizzati, privi di ammortizzatori e tutele.
Perché il punto di rottura non è militare, ma insurrezionale, si basa sulla presa in mano da parte delle masse popolari convocate in stati generali della rivoluzione del potere politico e sociale, di una nuova sovranità, un contropotere che emerge facendo collassare il sistema di potere sociale del capitale.

Nello stesso spazio vitale e sociale non esiste esodo, ma riappropriazione di ciò che deve essere la base dell'esistenza sociale e individuale dei soggetti. In questa visione emerge forte tutta la potenza immaginifica e materiale, di processo storico millenario di Marx, del Marx del Manifesto: l'abolizione della proprietà privata, delle classi sociali in quanto tali, ma senza passaggi intermedi che non siano quelli dell'appropriazione. Anche le tappe intermedie, non sono quelle del socialismo e di un partito unico che riporta alla produzione di plusvalore il lavoro vivo. Ma quelle della sovranità diretta popolare, dell'appropriazione, a partire dal redditodi cittadinanza, da una nuova redistribuzione della ricchezza sociale.
Un'argomentazione degli esegeti dell'ortodossia “comunista” è quella di affermare che la forma partito, ossia una struttura fortemente centralizzata, sia necessaria perché con l'avversario di classe il conflitto assume connotati di guerra, occorre quindi il partito-esercito. Semmai la questione centralismo democratico, partito di massa, versus cooptazione dei quadri e dei militanti, sarebbe relativa alle differenti fasi della lotta di classe.
Un'argomentazione non priva di ragioni: la rivoluzione non è un pranzo di gala. Ma quello che intendo sostenere è l'importanza di non pensare a una transizione rivoluzionaria come sussunzione del modo di produzione capitalistico in chiave “proletaria”, ossia di stato, ossia di partito, ossia il socialismo per come si è manifestato storicamente con il comunismo novecentesco.

Dunque, da ciò ne deriva l'importanza di riformulare un'organizzazione comunista che sia diretta espressione della liberazione proletaria. Che sappia, nell'eventualità, mettere in campo formazioni rigide di combattimento nei momenti di scontro armato (mai auspicabile), ma che in questa epoca storica sia strumento di creazione di nuovi rapporti sociali, di vita, di gestione di spazi, di sviluppo del potere costituente delle masse popolari in lotta.
La vera sovversione è quella che mina alla base le relazioni sociali capitalistiche e i suoi meccanismi di riproduzione sociale, di valorizzazione del capitale, che attacchi con nuove forme di esistenza liberata dal lavoro salariato il dominio reale del capitale sul lavoro e sulla società, da New York a Mumbai, da Tokyo a Milano, da Pechino a Città del Messico a Nairobi.
Detta così, la prospettiva può sembrare utopistica. Ma in tutta franchezza, in un'era in cui il capitale sta distruggendo il pianeta, il benessere un tempo acquisito delle classi popolari dei suoi centri metropolitani e la sopravvivenza delle comunità umane dell'emisfero, comunismo significa iniziare a togliere potere ai centri di comando del capitale, rendere sempre più difficile l'esproprio di beni comuni, di risorse, di ricchezza sociale, la valorizzazione del capitale, il profitto.
L'anticapitalismo militante nell'autogestione, nella conquista di una sovranità popolare politica, economica, alimentare, mediatica, è una necessità vitale per le classi proletarie e per l'umanità tutta.

Iniziare col piede giusto significa smetterla con i trionfalismi sui residui del socialismo, spesso galere a cielo aperto per salariati semi-schiavizzati come la Cina. Significa autonomia proletaria dal capitale e da qualsiasi forma di rappresentanza che non libera il lavoro vivo dalla sua funzione di valorizzazione del capitale stesso. Significa rifiuto del lavoro salariato nella valorizzazione di nuovi percorsi di esistenza sociale liberata, di cooperazione, nell'appropriazione di reddito, di beni comuni, nella ripresa di una rigidità di classe già nell'economia di capitale.
Significa rifiuto del lavoro salariato quando si dà storicamente la possibilità di un uso della tecnologia, della composizione tecnica della produzione (sino ad oggi formata e determinata in funzione del valore di scambio, del plusvalore) in funzione del valore d'uso. Quando storicamente il proletariato inteso come forza-lavoro viva sfruttata dal capitale nell'intero tempo di vita può slegarsi dalla sussunzione al capitale come “capitale variabile”, come parte intriseca della produzione del capitale, per divenire potenza produttiva e riproduttiva autonoma.

L'organizzazione comunista del lavoro salariato, punta alla negazione del lavoro salariato stesso, non alla sua mitologia. Questo è il punto di distinzione tra il veteromarxismo delle ortodossie, che vedono nel socialismo una fase inevitabile della rivoluzione comunista e non il suo affossamento. Che vedono nella gerarchizzazione del partito-stato, una funzione di lotta anticapitalista e non invece un mantenimento della classe salariata in quanto tale, subordinata al rapporto capitale/lavoro, alla sua organizzazione e divisione sociale.
La storia ha dimostrato ampiamente la curva degenerata dei processi economico-sociali delle esperienze socialiste, che vanno in prevalenza sotto la definizione di ”socialismo reale”.

“Secondo la definizione più elementare, un'economia è socialista se i mezzi di produzione fondamentali dipendono dalla proprietà sociale e non da quella privata, se di conseguenza il rapporto tra gli uomini nel processo economico si basa sulla cooperazione nell'uso dei mezzi di produzione, e se la parte del prodotto che spetta agli individui e ai gruppi è determinta dal lavoro o dai criteri sociali, e non dalla proprietà provata dei messi di produzione. Il contenuto semplicistico dell'ideologia socialista è basato su questo espediente grossolano dell'identificazione tra sfruttamento e privilegio della proprietà. L'ombra del plus-valore sparisce di colpo per trasformarsi giuridicamente in meccanismo economico, in regola tecnica.Il capitale si riproduce ma gli operai non lo sanno: ecco l'espediente socialista Essendo tutto regolato giuridicamente nella superstruttura, il processo di lavoro, l'accumulazione e la valorizzazione non sarebbero nient'altro che che delle semplici necessità obiettive e tecniche. Malgrado ciò che abbia potuto dire Marx, non bisogna più parlare di capitale. I socialisti si sono da sempre sforzati di trovare delle nuove definizioni per il capitale (…) a definire come non capitalista l'organizzazione del lavoro che mira a produrre un valore superiore al suo costo: arrivare a privare gli operai della loro proprietà più materiale, quella che è legata alla loro natura stessa di operai, cioè la loro ostilità al fatto di farsi consumare come tali nel rapporto di produzione. In questo modo si arriva ad impedire loro di di esprimere la conflittualità politica che durerà fintanto che che durerà il lavoro, e a sognare di realizzare tutto ciò nella felicità della cooperazione. Ma dietro all'ideologia e alle mistificazioni di un socialismo che crede ancora che la divisione è un fatto inerente al modo di gestire il lavoro e non al lavoro stesso, nonostante Marx abbia da tempo svelato i “misteri del meccanismo”, ci sis trova sempre di fronte al fatto che esiste da una parte la forza-lavoro e dall'altra la disponibilità a utilizzarla: lavoro, produzione di valore e di ricchezza, in cambio del diritto di vivere: la lotta per il salario e quella contro il lavoro rimangono dunque intatte.”
(Gli operai contro lo stato. Il rifiuto del lavoro. Edizioni Filorosso, 1980)

Questo pezzo tratto da un'opera di compagni operaisti francesi (che risale al 1973), sviscera piuttosto bene la funzione controrivoluzionaria del socialismo novecentesco. Nell'opera viene messo in evidenza anche come nel socialismo sovietico il salario fosse legato alla produttività del lavoro, reitroducendo anche tutti i meccanismi tipici del rapporto capitale/lavoro del capitale privato, di rottura della rigidità operaia, di estrazione di plusvalore secondo le dinamiche di sfruttamento del lavoro salariato.

Tutto ciò è alla base della mitologia stessa lavorista del socialismo, di cui lo stakanovismo rappresenta la punta di lancia ideologica più esasperata, oltre che un modello di comando sul lavoro vivo riprodotto in tutte le esperienze socialiste del secolo scorso e attuale.
La forma partito è alla base di questo apparato di pensiero, metodologico e di realizzazione materiale dei rapporti di lavoro “nella transizione” del comunismo ortodosso.
L'intera esperienza del movimento operaio italiano dal dopoguerra in poi è contrassegnata da questa dominante ideologica. E ancora oggi le lotte operaie e sociali scontano l'influenza di questa nefasta ideologia lavorista, che non è spiegabile solo dai bassi livelli di rigidità operaia raggiunti dopo la svolta neoliberista degli anni '80, ma dall'egemonia del PCI e dei suoi eredi anche in salsa rifondarola, nei segmenti di operaio massa, ma anche nelle nuove componenti di lavoro vivo sociale.
Dalla lotta per il salario alla lotta per il lavoro, il declino della conflittualità proletaria compatibile, “migliorista”, rivendicativa, è il binario morto che si rischia se il soggetto comunista rivoluzionario non sarà in grado di riproporre una lotta di riappropriazione di ricchezza sociale nel reddito di cittadinanza, una liberazione del lavoro dalle pastoie della valorizzazione, una lotta quindi immediatamente di contropotere, politica, di potere costituente di classe che nega se stessa in quanto tale e abolisce i rapporti sociali capitalistici, qualunque forma assumano. Anche di capitalismo di stato. La socializzazione dei rapporti di produzione e delle forze produttive non bastano. Occorre un modo di produzione basato sul valore d'uso, sulla cooperazione delle forze produttive umane per la soddisfazione delle necessità vitali di tutta collettività, sui bisogni sociali dei soggetti-cittadini, senza alcuna logica di merito, di produttività.
Questo è il comunismo, elemento non mediabile e non più rinviabile al punto storico, della storia umana a cui siamo giunti.

Questa digressione sul socialismo ci serve per comprendere che un progetto rivoluzionario, se è tale, deve cogliere la questione centrale dei rapporti di produzione capitalistici.
Credo poco, tuttavia, alle tesi sul “comune” su una via mediana (in un certo senso riformista) tra privato e comune. Il tentativo è lodevole: trovare una terzietà (alterità) tra socialismo, ossia proprietà collettiva dei mezzi di produzione e delle forze produttive, e capitalismo, proprietà privata, alienata alla collettività, entrambe come visto incentrate sulla valorizzazione della forza-lavoro e non sulla sua liberazione dalla condizione di salariata e di produzione di plusvalore.
Ma il tentativo sconta due limiti: il “comune” è limitato alla sfera del bene relativo a una collettività territoriale e la cooperazione del lavoro cognitivo va ad esprimere nuove forme di proprietà collettiva, che non mi pare che siano un passo avanti nella socializzazione statalista, ma un modo diverso di gestire la valorizzazione, in modo più decentrato.
Ma non è la centralizzazione o il decentramento a dare la qualità rivoluzionaria di un processo storico-sociale, bensì la sua incidenza nei rapporti economico-sociali, nel loro cuore propulsivo, il valore di scambio, la produzione di plusvalore. Viva la sincerità nel definire riformista questo processo di ridefinizione della gestione del “comune”.
Di conseguenza il secondo limite è la non aggressione della struttura di capitale, in un processo di riappropriazione di valore, processo produttivo e riproduttivo, con relativo mutamento di proprietà e destinazione d’uso. Marxianamente: abolizione della proprietà privata, del lavoro salariato, delle modalità riproduttive attraverso le quali il capitale si appropria del valore, della vita, del tempo, delle relazioni, del modo di produrre della colletività, plasmaqndo questa e i relativi processi sociali ed economici, culturali e politici a suo uso e consumo.
Il coinvolgimento delle categorie sociali è globale e non limitato alla proprietà (socialismo) o alla gestione (del “comune”), attraversa tutti gli ambiti. Questo è il processo rivoluzionario che ci auspichiamo. E da queste basi poste per un progetto e un percorso è possibile trovare punti di mediazione nella transizione rivoluzionaria, tappe intermedie. ma il progetto e il processo devono essere globali, devono investire la totalità delle contraddizioni sociali, capitale/lavoro, comune/privato, alienazione/tempo ed esistenza liberati. I migliori riformisti sono da sempre i rivoluzionari.
è questa la mappa ontologica della rivoluzione che dobbiamo tenere presente in ogni momento dell’azione politica delle soggettività e dell’antagonismo sociale contro il dominio reale del capitale.

Da qui torniamo al soggetto politico. Un soggetto oggi plurale, non assimilabile in forme ossificate di partito, per la composizione multiforme della classe proletaria e dei settori sociali che subiscono la devastazione neoliberista, per la mobilità incessante dei soggetti, in una sorta di nomadismo territoriale (questo sì, ben colto dall’analisi post-operaista), produttivo di composizione soggettiva, di attività sociale e di lavoro.
Centralizzazione nella sintesi progettuale, nella direzione del colpo, dell’attacco politico sui nodi dirimenti del conflitto sociale, ma reticolare e poliforme nel complesso di esperienze di contropotere, di attività riproduttiva solidale e cooperante.
Organizzazione politica sì, necessaria, inevitabile, potente nel suo costituirsi a soggetto, ma autorganizzantesi, diffusa nel corpo sociale, negli snodi conflittuali, fino al punto di creare direzione politica, movimento in itinere in un’azione intensiva ed estensiva.
Il nuovo carattere insorgente è quello della pura e semplice forza materiale di popolo, di classe che invade ogni interstizio del sociale. è sollevazione sempre più organica ai movimenti che la esprimono. Non tumulto estemporaneo ed endemico. Per “sparare” sul quartier generale, occorre un quartier generale collettivo altrettanto organizzato e potente.
Occorre autonomia proletaria organizzata, autorganizzazione di massa e
autodifesa militante, occorrono attività multiformi che tessono cooperazione, che battono moneta (valore altro, d’uso) e nuove forme economiche, che si riappropriano di spazi, che trasformano nell’autogestione consiliare le grigie fabbriche del capitale in officine dell’intelligenza collettiva, del “general intellect”, che contendono il bene comune all’avversario di classe, che liberano tempo ed esistenze, che sciolgono il grande nodo del debito in nuove forme di relazione economica e transattiva tra i popoli, tra le comunità nel mondo, devitalizzando e rendendo inerte e inutile la finanza speculativa.
Un processo che va costruito in base al farsi del conflitto, all’accumulo e dispiegamento della potenza sovversiva delle masse itineranti e in movimento di lotta.
Non c’è forma partito che possa riassumere tutto questo. Non ci sono piani quinquennali, kolkozzazioni forzate che tengano di fronte alla potenza di classe dispiegate nell’esplicare bisogni sociali e soggettivi, nella costruzione di un comune che è spazio, tempo, modalità dal comune denominatore del valore d’uso liberato dai vincoli della valorizzazione del capitale.
E' la classe che si nega come componente salariata del capitale, come capitale variabile in eccedenza, come produttrice di plusvalore, in concreto: come esistenza immolata ai sacrifici del sistema, del feticcio del denaro sublimato nel mito del lavoro e nelle sacre e indiscutibili liturgie del debito. E' la classe per sé che diviene altro, che va oltre se stessa.
L’organizzazione comunista è immediatamente organizzazione di classe, è autonomia politica della classe e non dei soggetti che pretendono di riassumerla e rappresentarla. è la classe che rappresenta se stessa, senza mediazioni.
La Comune di Parigi insegna: in un’autentica rivoluzione permanente (non quella trotzkista), delle forme di espressione diretta dei consigli popolari, della revocabilità dal basso in qualunque momento dei delegati rivoluzionari. Un assemblearismo, una democrazia di base, diretta, che torna di attualità dopo il delirio antistorico dello stato operaio e socialista, dopo le sovradeterminazioni di ceti burocratici post-rivoluzionari, anti-rivoluzionari, sclerotizzati a partiti-stato.
Occorre ripensare a quale processo comunista, dopo la fine delle rivoluzioni sociali del Novecento. Oggi abbiamo solo le macerie di un’ontologia “proletaria” che non nega se stessa in quanto classe salariata, ma che esalta la sua funzione di valorizzazione del capitale e che, quindi, nega la rivoluzione comunista stessa, la blocca nel suo evolversi storico sociale, quando il proletariato conquista la propria sovranità.
Ciò ha costituito la base soggettiva e la propaggine di un capitalismo sociale che oggi rappresenta (vedi la Cina) il miglior puntello alle controtendenze neoliberiste alla crisi strutturale e di sistema del capitalismo, le nuove schiavitù salariate dell’esternalizzazione dei cicli di produzione dei gruppi multinazionali e del capitale produttivo occidentale nel suo complesso.
Superare la visione socialista della rivoluzione sociale e dell'anticapitalismo, significa tracciare uan strada di reale superamento dei rapporti sociali capitalistici. Superare la forma partito e lavorare a forme di organizzazione politica dal basso, significa rendere protagonisti di un processo rivoluzionario i soggetti sociali che come classe in sé, hanno la possibilità materiale di liberare tutta la comunità umana dal capitalismo, giunto alla sua degenerazione irreversibile.