mercoledì 16 maggio 2012

NON IN NOSTRO NOME.



Il ferimento del dirigente dell'Ansaldo Adinolfi a Genova ad opera del Fronte Anarchico Informale e i proclami dei neo-brigatisti durante il loro processo, ripropongono antichi schemi: da una parte loro, le "avanguardie" che hanno capito tutto e che vedono solo nella lotta armata la possibilità di una rivoluzione sociale e, dall'altra, le masse, i movimenti che per crescere nel loro antagonismo devono aderire a questa modalità di lotta.
Indubbiamente la situazione è favorevole perché qualcuno, nel nome delle lotte sociali, per il comunismo o l'anarchia, ricominci lo stesso tragico tormentone che negli anni '70 portò alla sconfitta il movimento antagonista e che aprì la strada a un riflusso della lotta di classe in Italia.
Dicono che la mamma dei cretini sia sempre incinta ed evidentemente è vero.

La risposta non può che essere: grazie no, è un film già visto e che abbiamo già pagato con costi umani molto alti, con la devastazione di intere generazioni di compagni, con l'avvitamento di uno dei più avanzati movimenti autonomi organizzati e diffusi sul territorio e nelle fabbriche.

Un no alla lotta armata con due distinguo molto chiari.

Uno.
Il rifiuto della lotta armata che pongo, non è nel solco della "lotta al terrorismo". Chi agita lo spettro del terrorismo è proprio chi intende colpire l'opposizione sociale. E non è un caso che il ministro degli interni Cancellieri, abbia subito puntato il dito contro il movimento No Tav, accusandolo di essere l'origine di ogni male, il brodo di coltura del nuovo "terrorismo".
Giù le mani dai movimenti e dall'antagonismo sociale!
La repressione statale del regime capitalistico si è sempre alimentata di utili idioti per svolgere il suo vero compito: arrestare le lotte sociali. E se non ce n'erano, se li creava. Alimentava il clima di emergenza terroristica come oggi, che di emergenza lotta armata non si può certo parlare.
La lotta armata negli anni '70 era un fenomeno di radicalità sovversiva diffusa, di massa. Oggi l'antagonismo si esprime su altri terreni. Le dominanti sono l'autorganizzazione e le forme di lotta riappropriative di spazi, di ricchezza sociale. Talvolta anche con la violenza di piazza, certo. Ma che nulla ha a che vedere con non meglio identificabili progetti di sviluppo di organizzazioni armate e di strategie combattenti. 
La rivolta sociale è un'altra cosa: si può discutere sulle modalità in cui si manifesta. Certo non si può lavorare per inibirla. E la dialettica, anche aspra, tra soggettività antagoniste riguarda le soggettività in questione e i movimenti, punto.


Ma deve essere anche chiara una cosa: il denominatore comune di fondo degli attuali movimenti, sul carattere non militare ma sociale del conflitto, in pratiche riappropriative, immediatamente costituenti, di democrazia diretta e sovranità popolare dal basso espresse dai  nuovi movimenti (si veda gli indiñados spagnoli o Occupy USA), è sintomo di maturità politica dei soggetti. L'arretratezza semmai è nella mancanza di un progetto politico unitario e di dimensione internazionale, europea della conflittualità sociale. Il limite è quello di dare stabilità e continuità all'azione antagonista delle masse autorganizzate in lotta.


Due.
Il no alla lotta armata non è neppure un rifiuto aprioristico di questa forma di lotta. La Resistenza Partigiana in Italia e in Europa, così come le innumerevoli guerre di liberazione e di classe nel mondo, da Cuba alla Cina, dal VietNam all'Algeria, alla Rivoluzione Sandinista alle guerriglie latino-americane, e sono solo alcuni esempi certo non esaustivi, dimostrano che ci sono contesti e fasi storico-politiche che rendono necessaria questa forma di lotta per liberarsi da una tirannia, da un colonialismo, da un potere di classe oppressivo. Fasi in cui la situazione è rivoluzionaria per tutta una serie di condizioni e non sono possibili altre strade per la soluzione del conflitto sociale di classe a favore delle forze dei movimenti operai e popolari.
Non è il caso attuale delle società a capitalismo avanzato. Almeno in questa fase pur di crescita conflittuale. E comunque non penso che il carattere dominante di un'insurrezione nel contesto metropolitano sia quello militare. Esperienze molto recenti come quella tunisina hanno molto da insegnare, sulla forza che le classi popolari possono mettere in campo con la mobilitazione permanente, il boicottaggio, i blocchi, le occupazioni, i sabotaggi. Come un regime può collassare sotto la spinta dei tumulti sociali.


E' dentro la dimensione della metropoli, nella contesa sul comune, sulla ricchezza sociale e i suoi flussi, sull'autonomia delle pratiche sociali riproduttive che si gioca il processo rivoluzionario.
Non sulle elucubrazioni di sistematici da tavolino che spezzettano per fasi il processo rivoluzionario seguendo le "ricette" dei classici, in modo schematico e senza cogliere la complessità di un sistema globalizzato, le interdipendenze e le coesistenze di contraddizioni e soggetti negli stessi contesti sociali e culturali. Senza capire che la storia non si ripete mai con gli stessi schemi.

La Liberazione non è solo e meramente politica. E' ontologica. E il primo passo è rompere proprio con la simmetria politico-militare che l'antagonismo rivoluzionario "deve" per forza avere con il potere capitalistico.
La simmetria del conflitto militare col potere allontana da una trasformazione profonda le soggettività. E' quanto di meno anarchico e comunista si possa pensare.
Oggi è tempo di sperimentare l'autonomia, la riappropriazione, la liberazione, rompendo gli steccati di visioni steorotipate su "riformismo e rivoluzione".

E poi diciamolo fino in fondo. La lotta armata, per come ce la stanno ancora una volta configurando gli "a volte ritornano" è un volersi sostituire al soggetto sociale, e quindi non mettere al centro dell'azione politica la forza materiale della classe, del popolo.
Lo abbiamo già visto con le B.R. e con l'avvitamento al suicidio armato di intere componenti dell'autonomia operaia organizzata negli anni '70 e '80.
No, grazie.
Proprio oggi che le pratiche sociali riappropriative si vanno estendendo a livello internazionale, non è un caso che rientrino in gioco vecchie logiche alimentate sapientemente da chi non vede l'ora di inventarsi arbitrariamente "motivi" per partire con la repressione generalizzata dei movimenti.
La repressione ci sarà comunque e sarà forte, lo sappiamo. Le condizioni economico-sociali e la conseguente crescita della conflittualità sociale portano a questo. Ma se Nuova Resistenza di classe sarà, dovrà essere sulle pratiche e i contenuti dell'antagonismo sociale, non sull'azione esterna di spezzoni che col loro agire si pongono automaticamente fuori dal contesto della lotta di classe per come storicamente può determinarsi e si andrà a determinare.

La battaglia politica con questi spezzoni di nostalgici continuisti, se ve ne saranno, dovrà essere forte. Per difendere ed affermare le autentiche pratiche politiche antagonistiche e di sovversione sociale. "Compagni che sbagliano" il cazzo!

Per questo diciamo: no, la lotta armata no. Non in nostro nome. Non in nome delle lotte sociali.

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