sabato 18 agosto 2012

RIFLESSIONI SU MARIKANA: Il CAPITALE C'ENTRA ECCOME!



Rainews24, ossia il telegiornale che paragonato agli altri è della serie: "il più sano c'ha la rogna", alla fine del pezzo sulla strage di Marikana, recitava pressapoco così: la Lonmin (la multinazionale britannica proprietaria della miniera di platino) non c'entra.
La narrazione in pratica è: questi eventi sono il risultato di un forte scontro tra organizzazioni sindacali dei minatori e i capitalisti non c'entrano.

Oltre alla implicita vena razzista di questa considerazione, variante meno diretta del "sono negri incolti, gli dai un po' di libertà e si scannano tra di loro", va riaffermato con forza che è proprio vero l'opposto: nelle democrazie capitaliste, anche le più avanzate, il profitto viene prima di ogni altra cosa, delle condizioni di lavoro, della vita umana. E lo stato è il garante, il difensore di questo principio eretto a unico sistema che muove la società e, per questo intangibile.
Possiamo anche andare a vedere l'oggetto del conflitto aspro che ha contrapposto organizzazioni sindacali dei minatori tra loro (l'AMCU che vuole la triplicazione del salario e l'Unione nazionale dei lavoratori delle miniere, vicina alla Confederazione sindacale Cosatu e all'African National Congress), ma questo non ci serve per comprendere che i cuore della questione è il conflitto tra capitale e lavoro. Con buona pace di chi pensava che il superamento dell'apartheid e la nascita di una società democratica in Sud Africa portasse alla soluzione dei forti problemi sociali.
La miseria è rimasta, lo sfruttamento selvaggio pure, perché compagnie multinazionali come la Lonmin (la terza a livello mondiale nell'estrazione di platino) hanno mantenuto le loro proprietà, hanno conservato il loro dominio sulla forza lavoro, hanno imposto le loro condizioni di lavoro e di vita bestiali sugli operai.
Il che ci porta ancora una volta a confermare la validità dell'analisi marxiana delle società capitalistiche, dove lo Stato, in vari modi, nelle varie epoche, è lo strumento del dominio di classe del capitalismo sul resto delle classi sociali che, come in una scala gerarchica, hanno il posto che compete loro nella produzione sociale.

La nozione di democrazia, nella società classista del capitale, non può prescindere da questa realtà sociale e dalla configurazione dello stato in questo contesto storico. Non può prescindere al di là del grado di libertà civili e democratiche di cui una cittadinanza può godere.
Il Partito Comunista del Sudafrica, appena due giorni prima dalla strage, si appellava alle forze di polizia ponendole quali arbitri nel dirimere i forti contrasti interni al movimento dei minatori. Dimostrando così, ancora una volta, la miopia del comunismo di stretta osservanza ortodossa, staliniana, di fronte alle questioni dello scontro sociale tra capitale e lavoro.


La democrazia capitalista, che sia in Sudafrica o in Italia, in Germania o in Messico, in Russia o nelle Filippine, contiene il germe della repressione violenta sulle classi popolari e sui lavoratori, nel caso in cui questi innalzino il livello delle rivendicazioni sociali e del lavoro e, con esse, i livelli di autorganizzazione, di democrazia diretta, il livello dello scontro.
Dunque, la democrazia capitalista è totalitarismo mascherato, ma pur sempre tirannia.
Lo stiamo vedendo nella crisi generale, in cui i poteri forti legati ai centri finanziari, hanno iniziato a esautorare in Europa i governi, come in Grecia e nella stessa Italia con Monti.

Se vediamo le cose da questo punto di vista, capiamo bene come la disinformazione funzioni ormai "di default" su fatti come quello di Marikana. Il controllo sull'informazione è così totale che spesso non c'è neppure più bisogno delle opportune veline correttive. Questo è il modo in cui si manifesta il pensiero unico del capitale nel sistema dei media. Ormai in modo automatico, come un aereo che ha il pilota appunto automatico e in cui solo in certi momenti del volo necessita di correzioni volontarie.

I fatti di Marikana devono farci riflettere sulla traiettoria che può prendere lo scontro sociale anche qui da noi, nei paesi del sud Europa principalmente: quelli più devastati dalla crisi capitalistica, dove i think tank del capitale l'hanno già previsto: sollevazioni popolari sono imminenti.
Lo stato capitalista non fa sconti: chi tocca i piani del governo di turno, chi mette in discussione l'appropriazione privata di risorse, di beni comuni, di forza lavoro, dunque chi tocca i profitti, muore.
Comprendiamolo per creare organizzazione, per costruire un filo rosso, una continuità di progetto (insolvenza con audit popolare sul debito, reddito di cittadinanza universale, riappropriazione del comune ed esercizio di forme di cooperazione e autogestione liberate dai tempi e dai modi della riproduzione capitalistica) e di azione tra le varie lotte specifiche e tra soggetti, per fare il salto di qualità dell'internazionalizzazione delle lotte sociali, con la consapevolezza che possiamo vincere solo se il nostro attacco sociale viene portato in più paesi e in modo coordinato.
Questo è il lavoro politico da fare.

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