domenica 12 febbraio 2012

L'ALTERNATIVA POSSIBILE (5a parte)


LA SINISTRA RIVOLUZIONARIA.

In Italia, la sinistra rivoluzionaria ha avuto un ruolo forte ed estensivo in interi settori sociali a cavallo degli anni '60 e '70 del secolo scorso.
Un fenomeno complesso e variegato, che ha portato allo scontro sociale per un intero ventennio e che è legato principalmente a due aspetti:

a) i limiti di analisi e lettura dei mutamenti del processo produttivo e della società capitalistici, da parte della sinistra storica, tutta proiettata alla conquista dei ceti medi sin dal dopoguerra e a un sindacato e a un partito che puntavano a influenzare le scelte dello Stato e delle forze del capitale in materia di economia e in particolare di politica del lavoro. Non certo a una rottura rivoluzionaria dell’assetto capitalistico. Il togliattismo, con la sua visione di democrazia progressiva e l'imprinting dell'ortodossia di derivazione staliniana, si è basato su una visione "imperfetta" del capitalismo, quasi fossero le forze del socialismo, nel mutare i rapporti di forza nel quadro di una società borghese, a costruire programmazione economica, visione generale dell'interesse generale. In realtà, la macchina del capitale, sarà anche imperfetta per gli interessi collettivi e nazionali, ma è perfetta per gestire gli interessi privati e per sussumere le leve del comando sociale e del controllo degli apparati dello stato, per sviluppare politiche economiche favorevoli alla massimizzazione dei profitti, e rimodellamento dei cicli di produzione e (come si è visto) e della composizione della forza lavoro dentro e fuori i luoghi della produzione.
Da questa distorsione togliattiana che è propria del partito comunista italiano di allora, finalizzata a riprodurre l'impianto staliniano-kominternista al di fuori dell'egemonia sovietica e a favore di un'internità originale ma sterile alla democrazia parlamentare borghese, nascono i limiti stridenti di analisi del capitale, della classe e quindi dell’azione politica del gruppo dirigente del PCI, prima a guida di Togliatti, poi di Longo e, alla fine, alla degenerazione iniziata con Berlinguer (rimando all'appunto uno a piè di documento).

b) Limiti che per forza di cose sono stati raccolti da chi ha iniziato un percorso nuovo, inedito, che ha rappresentato la sinistra rivoluzionaria più vitale e in stretta dialettica con le lotte sociali e i nuovi soggetti.
Siamo a cavallo degli anni '50 e '60. E' la genesi dell'operaismo. Quaderni Rossi e la sua inchiesta operaia, fino a Potere Operaio e Lotta Continua i primi anni '70 e ad Autonomia Operaia: l'esperienza in vero più originale e sicuramente più pericolosa per lo stato e il capitale, prima della degenerazione di alcuni spezzoni di movimento alla lotta armata e alla conseguente repressione statale di tutto il movimento, con epicentro dei colpi inferti l'Autonomia Operaia stessa (vedi il 7 aprile e oltre).

Dunque, da una parte i limiti di analisi, di prassi, di concezione dell'avanguardia nel rapporto con la classe da parte della sinistra storica, in particolare del PCI degli anni del dopoguerra e dall’altra operaismo, che nasce proprio all'interno (ma non solo) del campo comunista, costituiscono la base, il terreno fertile su cui è nata un’inedita configurazione della sinistra rivoluzionaria in Italia.

Tutto il resto: trotzkisti, bordighisti, anarchici, i partitini maoisti pronti a dividersi in tante linee colorate, lo stesso movimento studentesco nel filone Avanguardia Operaia, sono state solo fuffa. Solo una menzione moderatamente positiva su questi ultimi del MS e di AO, ma soltanto perché hanno raccolto nella situazione concreta delle università in fermento l'azione politica delle avanguardie del movimento studentesco nel '68. Di fatto, sul piano dell'analisi hanno solo saputo riprodurre i classici in modo pedissequo e dottrinario. E, finita l’esplosione sociale del biennio ’68 e ’69, sono rifluiti in esperienze che di rivoluzionario avevano ben poco, fino all’esperienza di Democrazia Proletaria.

Sempre in quegli anni, un discorso a parte lo meritano le Brigate Rosse, che però hanno rappresentato nella sinistra rivoluzionaria l'importazione delle esperienze che si rifanno al “foco guerrillero”, i Tupamaros in particolare, come forma di un conflitto elitario, seppur a presenza operaia e proletaria, privo però di masse armate insurrezionali, in una sorta di scontro tra apparati in un'Italia e un sistema mondo che andavano verso una ristrutturazione capitalistica e che vedeva mutati i soggetti sociali. Il partito armato per definizione, che non vive la composizione sociale, che analizza la fase secondo schemi terzointernazionalisti di categorie ontologicamente indiscutibili, la cui azione sarebbe sufficiente a spostare equilibri e rapporti di forza (in peggio vien da dire!): che cosa può essere se non la variante togliattana del partito ortodosso, ma con la pistola?

Al di là dei libretti rossi nell’Italia della seconda metà del Novecento, c'è stata solo la feconda comparsa dell'operaismo.

Sgombriamo dunque il campo da tutto ciò che si è connotato come sinistra rivoluzionaria, ma che non ha saputo essere all'altezza per dogmatismo, per prosecuzioni di di battaglie politiche anacronistiche, tutte interne al movimento comunista, ma di altri contesti e di altre epoche.
Inoltre, dalla chiusura dello scontro sociale degli anni ’70, non si è prodotto più nulla di significativo. Sulla scena politica ha fatto il suo ingresso Rifondazione Comunista: un tentativo di coniugare ciò che restava del conflittualismo rivendicativo indisponibile al neonato PDS, con una sinistra di classe ormai devitalizzata dai soggetti che avevano animato lo scontro sociale degli anni precedenti, decimati dalla repressione. Correnti e conventicole che da allora stanno continuando a scindersi e a rifondarsi, in un balletto autoreferenziale inconcludente. Al di là delle mene bipolariste di Veltroni, la fine a residui in percentuali da stronzio nella minerale se la sono cercata i gruppi dirigenti, i Ferrero, i Bertinotti, i Diliberto, i Rizzo, piccoli burocrati rossi, alcuni dei quali vediamo ancora aggirarsi con calcolato tempismo attorno a Monte Citorio durante le puntate di Striscia la Notizia, dopo essere stati sbattuti fuori a calci in culo dal Parlamento.
La sinistra rivoluzionaria dei giorni nostri non è certo lì.

A ripercorrere questa vasta varietà di fenomeni tutti italiani a cavallo dei due secoli, occorre recuperare una nozione autentica di sinistra rivoluzionaria per ridefinire un ambito senza ambiguità e reducismi. La sinistra rivoluzionaria è tale se si pone come forza progettuale rivoluzionaria, come organizzazione autonoma di classe nel processo conflittuale contro le forze del capitale. Se la sua visione di processo rivoluzionario pone lo spostamento dei rapporti di forza tra classi sul terreno della conquista del potere politico, della distruzione dello stato borghese e dello sviluppo e affermazione degli istituti del potere popolare e di classe.
Poi si può parlare di forme della politica, di tattica e di strategia. Si può sviluppare un’analisi della situazione storica e concreta, della composizione di classe. Ma la conditio sine qua non è questa.
L’altro elemento di identificazione e (prima ancora) di identità, è l’essere altra cosa della sinistra rivoluzionaria rispetto ai partiti comunisti e alle forze antimperialiste e anticolonialiste di impronta nazionalista. Questo dato è vissuto in un conflitto molto aperto con il PCI in Italia, ma non è andata diversamente in altri paesi: il MIR in Cile, l’IRSP-INLA in Irlanda, il FPLP e Fatah, le organizzazioni di guerriglia latino-americane e i partiti comunisti, spesso con rapporti di stretta contiguità, ma con differenze forti con le ortodossie e i nazionalismi, soprattutto nel forte riferimento alla classe operaia e al proletariato da parte delle sinistre rivoluzionarie e a produrre esperienze inedite di autogestione proletaria, di sindacalismo rivoluzionario, persino di forzatura combattente.

Vediamo dunque più in specifico cosa significa essere sinistra rivoluzionaria oggi in Italia, riprendendo il filo rosso dell’impianto operaista, come base di partenza per una lettura della società odierna, italiana e del sistema mondo, del capitalismo globale, della classe, della fase, delle forze in campo, della crisi sistemica. E, soprattutto, delle grandi opportunità che quest’ultima apre per lo scontro sociale e per un primo esito che sposti equilibri e riporti sotto attacco (in questa prima fase) le forze del capitale da parte dell’autonomia di classe e di lotte sempre più vaste e aspre. Qui, nella nostra bella Europa.


L’OPERAISMO.

Levato il caglio, la crema della sinistra rivoluzionaria che resta è l'operaismo.
Come già esposto, da qui si tratta di ripartire, per riprendere il percorso interrotto di una sinistra rivoluzionaria all'altezza della situazione attuale, almeno sul piano della conoscenza della realtà economico-sociale e dei suoi mutamenti. E questi brevi appunti che seguono (e che vanno presi come notarelle sparse, prive di una sistemazione organica, non ancora inserite in un discorso ben strutturato), rappresentano semplicemente un modesto contributi su alcuni temi che sono stati propri dell'operaismo.

Operaio sociale e rifiuto del lavoro, la loro ri-attualizzazione muove su due direttrici:

a) LA SCOMPOSIZIONE DI CLASSE, individuando i soggetti (marxianamente per la posizione che occupano nella produzione e riproduzione sociale) che costituiscono la classe oggi, il proletariato sociale che subisce la precarizzazione non solo del lavoro, ma della vita stessa, nell’estensione della valorizzazione del capitale oltre la produzione stessa. Già con le analisi sull’operaio sociale, premessa e genesi dell’Autonomia Operaia, avevamo dato la chiave di lettura giusta, su dove il capitalismo nelle sue aree più avanzate, l’Occidente, stava andando.
La precarizzazione non può essere solo intesa come precarizzazione del lavoro, ma come esistenza precaria di un soggetto sociale diffuso e scomposto, parcellizzato nella miriade di attività e comportamenti dalla produzione a l consumo, che sono parte organica dell’estrazione di plusvalore e di redistribuzione della ricchezza sociale, di trasferimento di profitto. L’attualità dell’operaio sociale, o sua ri-attualità, che oltre alla congiunzione tra fabbrica e territorio, produzione ed estensione sociale della valorizzazione, lavoro cognitivo ed entertainment (adesione/consumo mediatico di valori dominanti nei binari del pensiero unico), oltre in altre parole alla subordinazione dei soggetti alle funzioni dirette della produzione sociale (estesa al consumo sociale), si aggiunge la subordinazione ai flussi di profitto, alla finanziarizzazione dell’economia produttiva stessa, del capitale sociale ridotto a debito pubblico, nella forma dell’indebitamento permanente e crescente.
Queste due forme di subordinazione, suddivise schematicamente per meglio analizzarle, compongono in realtà un’unica forma totalizzante di esistenza sociale e individuale dei soggetti, la forma di subordinazione del proletariato sociale scomposto e frammentato, la nuova schiavitù imposta alla maggioranza delle società occidentali dalle oligarchie sovranazionali del capitale finanziario dominante e le sue cricche corporative e partitocratiche locali (le nuove banana republic, caste “bananiere” al servizio dei potentati finanziari e dei gruppi multinazionali finanziarizzati).
La crisi, nell’immediato, è solo un’opportunità in più che si pone il capitale per ristrutturare l’organizzazione del lavoro, la sua divisione sociale. Di più: l’intera esistenza sociale al servizio della realizzazione e allocazione del profitto.
Dunque, con l’analisi operaio sociale, l’operaismo si conferma la semina più feconda dell’analisi marxiana, se oggi possiamo portare l’analisi stessa della creazione di valore, del.la realizzazione del profitto e della composizione sociale di classe a una lettura adeguata della situazione attuale. Occorre pertanto andare oltre l’operaio sociale, proseguendo il metodo e l’analisi operaiste dell’evoluzione della scomposizione di classe iniziato negli anni ’70 del secolo scorso.


b) IL RIFIUTO TOTALE DELL’ESISTENZA AL SERVIZIO DEL CAPITALE GLOBALE
In questo momento di forte crisi, di disoccupazione dilagante e di precarizzazione sempre più estesa, parlare di rifiuto del lavoro, quando milioni di proletari sono alla ricerca di un lavoro per la sopravvivenza, significa solo una cosa: farsi madare a spendere.
Ma questo punto, ben focale del pensiero operaista, non è inattuale, attenzione. Va calibrato in funzione dei punti centrali dello scontro sociale e delle aspirazione generali della classe. Va esteso all’indisponibilità di essere soggetti alienati ai tempi e ai modi della produzione e riproduzione sociale del capitale.

Poiché il lavoro in sé non è più l’unico terreno della valorizzazione dl capitale, non è l’unico ambito in cui si definisce il corpo sociale della classe, il rifiuto del lavoro si dilata in ogni ambito della società, arriva in ogni interstizio del “sociale”, nell’era del capitale globale integrato e della finanziarizzazione di ogni processo economico il rifiuto del lavoro diviene compiutamente rifiuto a essere soggetti funzionali a questo meccanismo perverso sopra descritto, oggi rifiuto del lavoro è rifiuto totale a essere precari, rifiuto a essere debitori, ossia soggetti che attraverso l’alienazione imposta dal capitale sono deputati dal capitale stesso ad assumersi l’onere (spacciato per onore da Napolitano & C.), del flusso unilaterale della ricchezza sociale dalla collettività ai conti bancari e alle speculazioni delle oligarchie finanziarie. è rifiuto a essere sfruttati nelle forme di sfruttamento contemporanee e vigenti, quando salta la nozione stessa di “proletario”, colui che non ha più neppure i mezzi di sussistenza per mantenere se stesso e la sua prole in quanto tali.
Per questo diviene immediatamente politico, poiché assume in sé il rifiuto conflittuale al capitalismo stesso per come oggi si impone, per come oggi ha invaso ogni ambito del sociale. Per come oggi ci distrugge la vita senza mediazioni e falsi solidarismi di facciata.
Perché questo rifiuto totale e assoluto a essere servi, mette direttamente in discussione, senza le mediazioni di un “politico” estraneo ed esterno ai processi conflittuali concreti, il capitalismo in quanto tale, le sue forme di comando economico, politico, mediatico, psico-cognitivo e culturale di pensiero unico. Sul piano ontologico è irriducibilità allo stato puro.
(Detto per inciso, è questa la vera chiave di lettura del conflitto tra movimenti emergenti e partiti di pseudo-sinistra, come dell’estraneità congenita della sinistra così detta radicale, dai processi conflittuali, della sua presenza del tutto parassitaria e aprogettuale nei movimenti stessi).

Dunque, si tratta di andare oltre il “rifiuto del lavoro”, cogliendo una dimensione più globale e totalizzante dello sfruttamento e dell’alienazione capitalistica.
Chiedere lavoro, chiedere stabilità del lavoro, chiedere migliori condizioni di lavoro, più salario non sono parole d’ordine obsolete, sono uno dei terreni in cui ci si riappropria di esistenza (certo, non ancora liberata, ma ricomponente sul territorio dei soggetti frammentati), di reddito, di ricchezza sociale. Sono il grimaldello per aggredire i meccanismi automatici di appropriazione di plusvalore, se legati agli obiettivi forti di più salario meno orario, lavorare meno lavorare tutti, di reddito di cittadinanza garantito. Se il lavoro vivo si riduce, non per questo ciò significa che sparisca. Consideriamo la tendenza generale nel sistema capitalistico globale a un aumento della classe operaia e del proletariato, soprattutto nei paesi dove sono stati esportati i cicli di produzione dell’Occidente e dove attualmente è in atto una crescita del capitale produttivo a tecnologia evoluta.
Ma consideriamo anche i paesi a capitalismo avanzato, dove assistiamo a uno smantellamento dei cicli produttivi e di interi comparti (si pensi in Italia all’industria automobilistica, dell’elettronica e degli elettrodomestici, petrolchimica e siderurgica, solo per citarne alcuni di significativi) e persino alla flessione del terziario stesso (volano negli anni ’80 del ‘900 della polarizzazione sociale tra crescita di una base sociale corporativa e della riduzione ad attività salariate precarie, prive di tutele e de-sindacalizzate in servizi scarsamente professionalizzati, mentre le produzione andavano all’estero), il lavoro vivo è ancora vasto e presente (per esempio: si provi a far fare alle sole macchine la costruzione di un palazzo, o la bonifica del territorio). Quindi, in tempi di deflazione e immiserimento, la parola d’ordine del “rifiuto del lavoro”, rischia di restare nell’ambito della sua astrattezza, corretta solo per l’analisi della tendenza, ma inidonea in sé per vivere nella situazione concreta.

Il rifiuto del lavoro, in definitiva è rifiuto di essere salariati in quanto tali, rifiuto di essere produttori e riproduttori del sistema di accumulazione capitalista, alienante e criminale, ha una portata strategica, ma che va poi applicata nella concretezza dello scontro sociale e non pedissequamente per quello che è.

Il lavoro, con le sue mille forme estese in ogni ambito sociale, deve cambiare e con esso il suo controllo.

Lavoro non più in funzione del profitto, ma del comune. Non più nei tempi e nei modi dettati dall’accumulazione del capitale, dall’estrazione di plusvalore, dalla realizzazione del profitto. Ma nei tempi e nei modi dati dalla collettività, dai suoi bisogni, con la rotazione, per esempio, nei lavori inevitabili più usuranti.
Controllo da parte del comune, della classe proletaria, più in generale degli istituti del potere popolare, che lo autogestiscono in base alle necessità collettive, della società nel suo complesso.

Appropriarsi del lavoro significa cambiarne funzioni e modalità, rimodellandole in funzione di una ritrovata solidarietà sociale, bene comune, intelligenza collettiva. Cosa diversa dalla transizione socialista, dove la classe operaia, attraverso il “suo” partito (o meglio dire: il partito, attraverso la “sua” classe operaia) gestisce i processi di produzione senza cambiarli di una virgola (ecco da dove nasce la classe burocratica beneficiaria del profitto realizzato, anche conto terzi, vedi la Cina). L’ideologia della produttività, non è un caso, è uno dei tratti significativi del pensiero unico sia nel capitalismo, che nel socialismo. Non è autentica socializzazione dei mezzi di produzione.




[appunto uno]
Riprendiamo in considerazione la polemica sulla “dittatura” del partito, posta dal comunismo di sinistra degli anni ’20 del secolo scorso. L’autonomia del partito dalla classe, ossia la piena identificazione del partito come luogo, diremmo più specificamente come gabbia in cui la classe si organizza e agisce (nel sindacato di partito, per esempio), è alla genesi della deviazione ideologica verso i ceti medi e dei settori neocorporativi delo PCI negli anni ’50 del ‘900.
E il “politico” alieno alla classe stessa riassume questa separazione tra avanguardia e classe, che nei momenti di scontro sociale diviene conflitto stesso.
è quanto è successo tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Non un mero rapporto di conflitto politico tra sinistra rivoluzionaria e PCI si tratta, ma di assunzione da parte del PCI di un ruolo vicario e complementare al controllo politico e sociale del capitale sull’antagonismo operaio e sociale di classe.
Non è un caso che l’operaismo affiori nella scena politica italiana, quando il PCI approda più compiutamente a questo ruolo di “istituzionalizzazione” delle istanze operaie, di un contenuto rivendicazionismo sindacale che non mette in discussione l’essere salariato in quanto tale e i meccanismi dell’accumulazione capitalistica, dello sfruttamento di fabbrica e le condizioni sociali del proletariato, nonché di una sussunzione del “politico” nelle burocrazie del partito, creando un filtro tra azione politica che scaturisce dalle istanze dal basso e azione elitaria mediante la partecipazione parlamentare e la gestione dall’alto di sottosistemi del pubblico (pubbliche amministrazioni) e del privato (cooperativismo).
Era inevitabile che controllo politico e sociale e integrazione di questi sottosistemi eterogestiti dalle burocrazie alle esigenze di valorizzazione del grande capitale (vedi la gestione dei servizi, il sistema degli appalti, ecc.) fossero un tutt’uno organico parte di un’unica grande trasformazione della sinistra storica a opzione interna al sistema capitalistico.

CRETINISMO BERLINGUERIANO
La storia successiva di ciò che il PCI è diventato: PDS, DS e PD (con parti della vecchia Democrazia Cristiana e dei socialisti), la sua adesione al neoliberismo, è parte dell’involuzione a livello europeo della casa socialista-laburista, ma soprattutto è un fenomeno tutto italiano. A ciò ha portato la deriva togliattiana e post-togliattiana, con buona pace di tutti i vari sdoganatori di Berlinguer, semplicemente perché aveva fatto la “voce grossa” contro l’immoralità e la corruzione della politica. Come un pastore cretino che sbraita per l’uscita nottetempo delle pecore dal recinto, quando LUI in realtà ha lasciato aperta la porta.
è infatti impensabile considerare l’occupazione del “politico” come fatto alieno da ogni istanza sociale dei luoghi pubblici e dello stato, il suo inciucio (tanto auspicato da Togliatti) con settori della borghesia, ceti medi professionali, produttivi e dei servizi, delle banche e del capitale, come impermeabile alla corruzione. Tutto il contrario! La criminalità organizzata e la corruzione sono, infatti, parte essenziale delle modalità attraverso le quali la borghesia e il capitale si appropriano di profitto, se lo spartiscono. Sono proprio il terreno principe attraverso il quale la ricchezza sociale e il bene comune, i denari della collettività ottenuti dal fisco, vanno a finire nelle tasche di burocrati, imprenditori corrotti, grandi aziende che realizzano opere inutili, se non dannose. Così come il riciclaggio dei proventi delle mafie associa danaro pubblico, appalti pilotati, in cordate oscene. Una zona grigia che Berlinguer non ha saputo o voluto leggere.


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