domenica 17 giugno 2012

L'ALTERNATIVA POSSIBILE (8a parte)


Bananas vs Comune rivoluzionaria.

Se avete presente il film Il dittatore dello stato libero di bananas di Woody Allen, vi ricorderete certamente del momento in cui i guerriglieri prendono il potere: il loro capo che diventerà il dittatore di Bananas, proclamerà lo svedese come lingua ufficiale e ognuno dovrà portare le mutande sopra i calzoni. È precisamente ciò che sembra accadere a tutti i politici che arrivano ad avere una carica di sindaco, di presidente della regione o semplicemente a chi viene dato un assessorato.
Anche il rifondarolo più accanito, arrivato all’urbanistica, vedrà il mastodonte più inutile e dannoso e lo sventramento di una sede stradale storica, col rischio di crollo di torri antiche, la soluzione per eccellenza del trasporto pubblico comunale.

Il cittadino di sinistra, che cuoce il gnocco fritto alle feste popolari di partito, se liberasse il cervello dalle tarme e iniziasse a ragionare, passerebbe un bel po’ di tempo a chiedersi perché i suoi “tribuni del popolo” un sacco rivoluzionari, diventano automaticamente stronzi doppiogiochisti, una volta passata la soglia del palazzo.
La risposta è nella fine della politica istituzionale, quella dei partiti convenzionati con la “mutua” del finanziamento pubblico in mille salse. Non esiste più una politica sganciata dai dettami della vera governance di regime: il debito va pagato, certi interessi forti e cricche vassalle locali vanno tutelate e i partiti si trasformano in truppe d’occupazione delle pubbliche amministrazioni. Un vero schifo che ti fa domandare: perché andare a votare?

Senso di responsabilità, politica ragionevole, la politica è l’arte del possibile e scemenze d’ogni tipo sono luoghi comuni che servono a giustificare l’assenza più totale di un’autonomia politica dei rappresentanti dell’attuale sistema pseudo-democratico e della mancanza assoluta di un qualsivoglia rapporto con la loro base elettorale. Potranno girare feste e case del popolo da mane a sera, ma la questione non cambia di una virgola: decidono le segreterie, con un po’ di demagogia assistita dal fuoco amico dei media di regime, un po’ di salotto televisivo per ribadire che quelli sono i luoghi del dibattito e del politico, oltre le aule “sordide e grigie” di palazzo e festa.
Perché in tutta questa grande messa in scena, a volte corroborata da seriose e partecipate primarie truffa, il vero nemico è tutto ciò che si muove fuori dalle istituzioni e dai partiti ed è tanto: la democrazia diretta e dal basso, i movimenti sociali, le lotte autonome di massa, che sono i veri cantieri, gli autentici laboratori politici progettuali.
Esperienze oscurate dai media, o di cui i media e gli opinion leader parlano se non possono farne a meno, data la vastità del conflitto sociale prodotto, come la lotta NoTav. E allora, a quel punto scatta la rappresentazione distorta dei movimenti stessi, con il solito copione: i falchi e le colombe, i virtuosi che rappresentano il “popolo di sinistra” democratico e i black blok.
Sono copioni collaudati, quindi automatici. Provate a prendere un articolo sugli incidenti dello scorso ottobre a Roma, cambiate luogo e qualche forza politica con quelli della Val di Susa et voilà, il gioco è fatto, in una scrittura monocorde e intercambiabile, in un olipop e surrealista monotono e ossessivo.

Ma il dittatore pazzo della politica odierna è solo una macchietta. Lo è stato Berlusconi nei suoi governi fino all’ultimo cessato nel dicembre 2011, lo sono stati i anche i governi del centro-sinistra precedenti e inframmezzati a questo.
Prendo spunto da Berlusconi per il semplice fatto che la sua parabola di politicante di una politica etero diretta da qualcun altro è l’esempio più semplice per comprendere il giochino che era la democrazia rappresentativa prima di consegnare i residui di governance nazionale ai poteri forti delle élite finanziarie.
Qualcuno penserà che il problema di Berlusconi fosse qualche prostituta e festino di troppo. Berlusconi è rimasto al governo finché qualcuno ha voluto che restasse. Quando la sua posizione è  risultata ingombrante per i decisori reali, il cavaliere di Ruby rubacuori si è dimesso.
In questi ultimi anni il problema della politica era quello di prendere decisioni impopolari, dovute ai poteri forti, alle esigenze di risolvere le bolle speculative e il recupero di titoli destinati a diventare spazzatura attraverso politiche di rapina del bene comune dei cittadini, delle pensioni, dei salari, della pressione fiscale sui ceti medi, al problema di sostenere i CDS delle banche occidentali, e i titoli sovrani detenuti da hedge found minacciati dai debiti pubblici di paesi come Grecia, Spagna, Irlanda, Portogallo e ovviamente Italia.
E il giochino era: le decisioni che prendo io, la prossima volta fanno andare al governo te. I poteri forti della finanza mondiale, a dominanza anglosassone, attraverso consessi come la Trilateral, hanno convenuto che i sistemi parlamentari e di governo rappresentativi che avevano costituito l’ossatura democratica dei paesi a capitalismo avanzato dell’area USA-NATO, ormai erano inutili in un contesto economico di crisi sistemica, di velocità dei flussi e delle transazioni finanziarie che governano la ripartizione dei profitti tra company multinazionali, banche e agglomerati finanziari, le rendite da capogiro, le scelte strategiche del potere capitalistico nel risiko dei mercati davanti al sopravanzare di economie come quelle dell’Asia. Questo qualche anno fa. Per cui, tutto programmato: che i politici facciano il loro compito di cavallette al pranzo del comune, i rappresentanti di cordate clientelari. Per le decisioni che implicano i trasferimenti di ricchezza dal comune e dai piccoli privati alle major finanziarie, per il controllo delle zone dell’”impero” sottoposte alle oscillazioni del debito pubblico, ci sono altri attori, per una politica indiscutibile perché non politica ma “tecnica” pura.
Per cui, mentre i D’Alema e i Fassino cercavano di adeguare alla situazione il sistema delle cooperative cercando acquistare con Consorte una banca, mandando a remengo gli ultimi pudori, i residui di un socialismo democratico a parole, il pensiero unico neoliberista si saldava attraverso un  tecnicismo “neutro” con ogni realtà della politica stessa, i veri padroni del come vanno le cose toglievano la governance del paese alla politica, per un mondo di conti da far quadrare, di pareggi di bilancio in Costituzione da non ridiscutere mai più. Il mercato diventava il dogma, la nuova religione del neoliberismo imperante e i tecnici i sacerdoti.

Certamente nella testa dei Berlusconi, dei Casini e dei Bersani, con l’aver dato mandato a Monti per il peggior governo antipopolare che la storia italiana abbia conosciuto, c’è il calcolo stupido del far fare il lavoro sporco a qualcun altro, spacciando la cosa per amara necessità, medicina da far prendere guarda caso ai soliti noti.
In realtà c’è l’abdicazione definitiva della politica dal progettare una realtà sociale per qualcun altro che non sia finanziere e non abbia un conto alle isole Cayman. C’è la fine della democrazia rappresentativa liberale a favore di un capitalismo alla rovina, incapace di risolvere i propri conti e di riprendere i profitti, una crescita, attraverso la garanzia di prospettive di vita accettabili per milioni, miliardi di persone.
Solo la lotta per l’osso conta. E al pranzo partecipano anche la criminalità organizzata e i comitati d’affari che sponsorizzano le cricche di partito, le segreterie.
Questo, purtroppo è il contesto che segna il passaggio dalla morte definitiva del welfare sociale (quello bellico funziona benissimo) al neoliberismo della privatizzazione selvaggia, della rapina delle risorse, dello sfruttamento di un lavoro ormai così precario e diffuso, da attirare prossimamente nuovi investitori da Russia e Cina, per risparmiare sui costi del loro lavoro salariato.

Per cui, quando ascoltate Monti, Bersani, Casini, Alfano, Montezemolo e compagnia cantante cianciare di rigore nella crescita, pensate solo a una cosa: che alla fine della fiera la crescita non ci sarà né con la ricetta della Merkel: Europa a due velocità per un mercato comune a dominanza teutonica (dove non ha riuscito Hitler…) con peasi del Sud Europa bacini di forza-lavoro a basso costo e stati ricattabili, né con quella di Goldman Sachs e Jp Morgan: recupero crediti costi quel che costi, un banco europeo che salta e una riorganizzazione del mercato in funzione dell’egemonia USA messa a dura prova dal partner europeo e in funzione di attacco alle economie forti dell’Asia che esportano in  Europa e hanno bisogno di un mercato che acquisti.
Ci sarà solo il rigore: donne e uomini, giovani e vecchi che vivono di pensioni di merda, di lavoro precario, che non lavorano, di periferie degradate con fabbriche morte, di aziende che chiudono a ogni trimestre, di un  fisco che raschia il fondo del barile con tassazione sopra il 60% reale che crea ancora più recessione e deflazione.
Ci sarà la base stessa per una rivolta sociale di vasta portata, di cui i movimenti come NoTav, le accampate spagnole e occupy, sono solo una timida avvisaglia.

Questa rivolta potrà diventare rivoluzione se tutti noi ritorniamo a progettare un modo diverso di concepire le relazioni sociali, il modo di produrre e redistribuire la ricchezza sociale. Se facciamo capire a più persone possibile che molto meglio di una morte quotidiana, di una mancanza di speranze, o di una rivolta caotica, magari consegnata agli istinti più reazionari del populismo razzista e localista (vedi lega e Casa Pound), è una rivoluzione sociale in cui vaste masse si riappropriano del potere di decidere della società, di fronte a queste cricche di mentecatti prive di un progetto, o con il solo progetto di succhiarci via tutto davanti ai loro profitti sempre più risicati.
Marx ebbe a definire il comunismo come il movimento che abolisce lo stato presente delle cose. Il comunismo va fatto emergere dal ventre della bestia, va praticato come atto sovversivo, di distruzione di uno stato che non è nemmeno più la pallida caricatura della Costituzione materiale voluta dai nostri padri e ottenuta col sangue dei partigiani. Se qualcosa del marxismo e del leninismo è ancora attuale, certamente lo è l’analisi dello stato capitalista, quindi delle democrazie liberali come degli autoritarismi neoliberisti che oggi si vanno affermando in  sempre più paesi: lo stato è lo strumento del dominio capitalista sulla classe dei salariati e dei ceti sociali subordinati a quelli dominanti.
Ciò oggi diviene ancora più chiaro e dobbiamo chiarirlo a tutte le soggettività che si muovono attualmente contro le politiche neoliberiste e di dominio del capitale. Chiarire che ciò che conta per noi è ciò che emerge dal basso, la democrazia diretta nel conflitto sociale che di fatto si va sviluppando. L’autonomia di classe, il contropotere o potere costituente, la sovranità nei suoi aspetti fondamentali: politica costituente, economica, alimentare, sui beni comuni e le risorse della collettività, sulla salute e il benessere. Sovranità sul futuro che ci hanno rubato.

Questo punto informa i mezzi di lotta opportuni e maggiormente efficaci, con intelligenza e lungimiranza. Comprendendo l’inevitabile, ma con saggezza e pazienza. Senza ripetere gli errori politici di un socialismo novecentesco, o le fughe in avanti degli anni ‘70.
I quadri politici che sorgono dalle lotte o che provengono come me dalle lotte del passato devono lavorare con metodo, senza bruciarsi nel fuoco del conflitto prematuro. Non come il fuoco che brucia, ma come l’acqua che scorre e che tutto trascina via, leviga, fino alla rottura della montagna.




PUBBLICO E PRIVATO.
Abbiamo visto che il neoliberismo, l’attuale grande e indiscutibile politica di captazione di capitali, risorse, ricchezza sociale, beni in comune e di imposizione di un modello di riproduzione della società basata sul dominio senza regole del capitale sul lavoro, messa in campo dai ceti capitalisti dominanti, è l’unica soluzione temporanea per garantire profitto a queste élites che si riuniscono periodicamente a Davos, o il martedì a Wall Street.
Questi signori devono contrastare ogni forma di economia e di mercato che preveda una redistribuzione più equa della ricchezza sociale, perché in realtà il capitalismo giunto a questa fase di crisi irreversibile è un sistema finito in tutti i sensi, finito perché non è infinito nel suo sviluppo (al di là della sua inarrestabile traiettoria), e perché sta andando alla canna del gas. È come se avessimo un grande rubinetto selettivo che inizia a chiudere l’acqua a partire dalle fasce sociali più basse, via via a salire i ceti medi, in uno sviluppo (questo sì inarrestabile) di condizioni di vita insopportabili per milioni di persone.
Se ci fermiamo un attimo a pensare alle nostre vite, vediamo che ognuno dedica il suo tempo al capitale in ogni istante della giornata: lavoriamo alle condizioni date di ipersfruttamento, la nostra attività di riproduzione incessante di tutto ciò che crea valore per le major finanziarie si estende al consumo, all’uso della rete internet, alle file per la miriade di questioni burocratiche che dobbiamo affrontare per avere una cura o un esame, per pagare o dilazionare un pagamento di una cartella del fisco, alle poste per pagare bollette. Parlano di semplificazione, ma siamo sommersi da atti burocratici ben supportati da uffici legali che noi comuni mortali non possiamo avere, se escludiamo associazioni di consumatori e di categoria spesso poco efficienti.
Lo stesso pubblico, la macchina burocratica dello stato, delle pubbliche amministrazioni è un grande carrozzone concepito per controllare di fatto il nostro tempo, sottraendolo ad attività affettive, sociali solidaristiche, a quei momenti importanti nella vita ognuno, in cui ci dedichiamo a noi stessi.
Non parlo di un “grande fratello”, intendiamoci: questi meccanismi sono automatici e il risultato finale è quello di farci vivere una vita degradante, di spreco di tempo vissuto per un altro alieno e lontano da noi, che paghiamo oltretutto soldi in servizi spesso di merda o inesistenti, soldi che immancabilmente, più o meno indirettamente costituiscono il flusso di questa captazione da parte del privato: che sia il gruppo monopolistico che ha le multi utility, la finanza internazionale che con il giochino dello spread sui titoli di stato ci sottrae danaro pubblico, o la cordata di politici che occupa l’amministrazione dello stato per sé e i suoi amici e parenti, leggesi: clientele, corruzione, falso ideologico, ecc.
Paghiamo per vivere di merda e per farci rapinare in mille modi.
Questa descrizione è precisamente la fotografia di come il privato di potere, la concentrazione finanziaria con il suo ipermonetarismo, così come la banda di delinquenti ammantati di belle ideologie, usa il pubblico, ne fa il suo strumento di rastrellamento di danaro e di posizioni di rendita, organizza la nostra giornata quotidiana di nuovi sudditi al servizio del re di prussia del neoliberismo.
Le nostre vite individuali e sociali, quello che potremmo essere come persone splendide in mezzo agli altri (senza preoccupazioni per il mutuo, o la cartella che arriverà da Equitalia, o il lavoro a tempo determinato che finirà il prossimo mese), e ciò che la comunità produce e ha di diritto: il pubblico, il comune, le risorse di un paese, sono tutte in funzione del privato.
Mai come ora la definzione di Lenin dello stato, come “comitato d’affari della borghesia”, come strumento di dominio di una classe su un’altra è stato così chiaro, adamantino direi.
Il neoliberismo ci sta prendendo tutto senza dare nulla in cambio. Sta prendendo ciò che è nostro, lasciandoci un’esistenza alienata.
La battaglia per ridisegnare un comune, uno spazio pubblico a dimensione dei cittadini perché autogestito dalla collettività, per annientare un privato che estorce beni e ricchezze e impone condizioni di vita alle cittadinanze del mondo, col favore di uno stato complice e compiacente, è la madre di tutte le battaglie.
La gente non lo sa, ma in palio ci sono due cose importanti, che cambieranno la qualità della vita di tutti: il reddito di cittadinanza universale, ossia il passaggio epocale a una società dove il diritto a esistere soddisfando tutti i bisogni umani sarà garantito a tutti, la vera civilità umana… e la fine del lavoro per come lo conosciamo. Di lavoro ce ne è sempre meno perché secondo quanto individuato da Marx nel processo produttivo, il plusvalore, ossia ciò che dà profitto, diminuisce in relazione al diminuire del lavoro vivo occorrente per realizzarlo e all’aumento di capitale fisso (in macchinari, tecnologie), la concorrenza e tutto ciò che può far diminuire il costo del lavoro a favore del profitto per il padrone, spinge a espellere forza-lavoro dai cicli produttivi, a intensificare lo sfruttamento, col risultato che chi lavora lavora di più e a condizioni e ritmi bestiali, mentre si forma una massa sempre più estesa di lavoratori precari e disoccupati.
Al livello raggiunto dalle forze produttive potremmo lavorare tutti meno e senza essere sfruttati, in tutti i campi: produzione di beni, servizi di ogni tipo. Questo è il secondo passaggio che realizza la definizione più compiuta di comunismo che ha dato Marx: a ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue possibilità.
Potremmo avviarci a una società di questo tipo, semplicemente invertendo i fattori: non più pubblico in funzione del privato, ma privato in funzione del pubblico, superando la più grande cazzata della storia, inventata dal neoliberismo per ammazzare il welfare sociale e imporsi come unico modo di gestire la società e la sua economia: il mercato regola la società. Abbiamo visto che è come affidare le proprie gole … ai tagliagole. A questa grande cazzata si sono adeguati tutti, con risultati catastrofici a tempo di record: pochi decenni, dai tempi di Tatcher e Reagan.

In definitiva, se ne esce solo attraverso movimenti sociali che impongono al contrario della deregolamentazione dei mercati e della privatizzazione selvaggia, la concentrazione dell’economia, la sua socializzazione, iniziando con l’ammettere solo l’esercizio produttivo e commerciale di vicinato, controllato e garantito dal nuovo pubblico. Ma i monopoli privati, i cartelli, i detentori di masse monetarie ipertrofiche che non descrivono i livelli reali di ricchezza prodotta del sistema economico, ma che vengono armati dalle banche centrali di soldi, che sono solo armi di distruzione di massa delle economie altrui, soldi fittizi usati politicamente nella guerra interimperialista tra ceti capitalisti, e per rapinare le classi popolari e quanto hanno prodotto e risparmiato in decenni di lavoro, tutti questi speculatori che hanno potere solo per convenzione, solo perché i politici corrotti glielo lasciano, vanno sconfitti e disattivati, la loro massa monetaria circolante va devalorizzata, tornando dapprima al valore di scambio di cose reali, tangibili, che servono alla nostra vita, alla comunità, per arrivare infine al solo valore d‘uso delle cose prodotte.
Fine della società dello spettacolo e dei simboli monetari fittizi che agitano il palcoscenico osceno della nostra vita quotidiana.
Il comune, il pubblico, frutto di una reale partecipazione democratica egualitaria di tutti, è l’unica soluzione. L’economia deve arrivare finalmente a servire la comunità e farlo di default, come aprire il rubinetto dell’acqua, questa sì una cosa tecnica.
Questi due aspetti: reddito e perdita del lavoro come funzione e tempo primari della riproduzione della nostra vita quotidiana, insieme alla visione di un nuovo comune, non più funzionale come lo stato agli interessi privati di ceti dominanti, è ESATTAMENTE ciò che deve distinguere la sinistra in ogni paese.
Sono la stella polare, il programma di fondo di ogni movimento o forza politica che agisca per il bene comune e non per interessi privati, che metta al centro della propria identità politica la comunità e i cittadini, l’equità e la giustizia sociale.
Quello che manca a tutti i partiti dell’internazionale socialista europea, ai laburismi, al PD italiano e che inizia a non essere più tanto chiaro neppure  a compagini annacquate come Sinistra Ecologia e Libertà di Vendola, per non parlare dei ciacaroni populisti e arruffapopolo come Di Pietro e l’Italia dei Valori, o al Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo.

Non si eliminano gli effetti della malattia con la malattia stessa, ma con una cura che guarisca dalla malattia. La crisi non si supera con più il capitalismo, ma eliminando il capitalismo stesso, in un processo di avvicinamento a una società sempre meno mercantile, gestita dalla comunità libera di cittadini nell’interesse di tutti.
Il collettivismo è già tra noi. Guardiamo alla potenza della tecnologia, della scienza e alle risorse umane, ai saperi, alla socializzazione delle attività umane riproduttive che viene piegata alla limitatezza dei profitti privati. Il collettivismo è una gestazione materiale, è nelle cose. Che si ripresenta puntualmente nei processi rivoluzionari, anche se sin’ora ha preso direzioni restaurative come nel socialismo reale o capitalismo di stato.
Ma è anche materialmente soggettiva la sua presenza: come non vedere nelle culture e nei movimenti autogestionali una vera e propria cellula di una società globale collettivistica?
Pratiche e saperi, corpi e menti che iniziano a muoversi collettivamente e in piena autonomia dai dettami dell’attuale società autoritaria e disciplinare.
A Occupy Wall Street e nelle accampate spagnole c’erano mense, librerie, servizi alla persona d’ogni genere e tutti gratuiti. C’erano servizi sanitari e dormitori ben organizzati e aperti a tutti. C’era una divisione sociale del lavoro orizzontale, autogestita e condivisa, c’era una ripartizione equa dei beni e dei servizi.
Questo processo collettivo è la nuova cellula della riproduzione sociale in gestazione, esattamente come lo era la fabbrica, il lavoro salariato, il nuovo ciclo produttivo capitalista nella rivoluzione industriale borghese.
La comune rivoluzionaria, a differenza dello stato borghese, è la libera organizzazione di donne e uomini per la riproduzione sociale.
Tutto questo è compresente e si manifesta nella società capitalista stessa e non solo: costituisce l’unica alternativa reale alla crisi che dilania la società contemporanea dominata dalla divisione sociale del lavoro capitalista, dai suoi dispositivi di comando e di organizzazione autoritaria sul corpo sociale complessivo.
Ciò che producono i movimenti autogestionali e riappropriativi, le reti sociali, sono forme anticipatrici della nuova collettività sociale planetaria. In forma spontanea e autorganizzata, riprendendo tradizioni di lotta e di democrazia dal basso avutesi con gran parte dei movimenti comunisti e dell’anarchismo in oltre duecento anni di spinte rivoluzionarie al cambiamento.
Tolto il caglio del socialismo autoritario e del capitalismo di stato, c’è la panna della tradizione libertaria e comunista del novecento. Questo è il cuore della rifondazione di una sinistra rivoluzionaria: coniugare la memoria storica dei movimenti sociali antagonistici e sovversivi del passato con le nuove pratiche sociali riappropriative e costituenti che stanno emergendo e diffondendosi da Oakland a Londra, da Tunisi a Madrid, da Roma a Montreal, a Berlino.
L’estensione, la multiformità e la profondità delle pratiche fatte proprie dal corpo sociale salariato e dai ceti sociali sottoposti all’oppressione economica dal capitale, creeranno l’effetto collasso del sistema capitalistico. Se ben indirizzate, se caratterizzate e gestite da un’organizzazione autonoma di classe.
La tendenza è la crescita del conflitto sociale: non va  lasciato al populismo reazionario della destra o al nuovo apprendista stregone di turno, che passa dal cabaret alla politica.
Le pratiche vanno dall’accampata al boicottaggio, dal sabotaggio nelle sue diverse forme, all’occupazione, dall’autogestione di spazi all’hackeraggio, dalla violazione del copyright e delle proprietà del capitale, giuridiche e intellettuali al medi attivismo in rete. Solo per citare quelle più diffuse e operanti. Ma altre ancora andranno individuate poiché la rivoluzione sociale, a differenza del politico normato, è un incessante processo creativo di liberazione di risorse, genti, connessioni, relazioni.
La solidarietà è la dominante di questo nuovo che avanza. Il fraternité della rivoluzione francese non è un atto marginale, da dame di carità, ma il punto centrale insieme alla libertà e all’uguaglianza della società futura, oggi in gestazione. Elemento spiazzante per il potere dominante del capitale e fortemente contagioso nel corpo sociale, poiché pertiene le relazioni umane più profonde, i legami sociali, le appartenenze e le affettività, oggi relegate a una sorta di competizione tra poveri e di egoismo sociale da campanile. Il solo “anticapitalismo” che la destra reazionaria può produrre con deliranti pregiudizi.
Il solo strumento culturale che il pensiero unico liberista possiede per imporsi con  la violenza di un diritto osceno nella società.
La legge è illegale, ricordiamocelo sempre.

Guardiamo all’Italia: non si preoccupino i milioni di commercianti e artigiani: il comunismo non è deportazione forzata ed esproprio dei piccoli privati, ma è tutela delle proprie attività in un sistema che nel controllo sociale da parte del pubblico, regola le attività e garantisce i redditi delle piccole imprese.
La ricchezza sociale verrà redistribuita equamente secondo i criteri di reddito garantito, mentre il lavoro avrà forti basi di tutela delle condizioni e delle remunerazioni, nel “lavorare meno e lavorare tutii”, o meglio ancora “lavorare chi vuole”, per modi non più alienanti di produrre.


IL POTERE COSTITUENTE DEI MOVIMENTI RIAPPROPRIATIVI.

Nell’era del dominio finanziario del capitale sui popoli e sulle classi proletarie, vediamo come la questione centrale sia diventata la realizzazione dei profitti mediante esproprio capitalistico di lavoro, beni della comunità, risparmi, tempo di vita. In sintesi, tutto ciò che va a comporre la ricchezza sociale di una comunità, di un paese.
La politica finanziaria, al di là delle sue complessità di procedura, in definitiva si riduce a questo semplice processo di trasferimento dal comune a al privato dei circoli ristretti dei decisori finanziari di ciò che costituisce il valore esistente nella società.
Su questo obiettivo costante si basano le scelte politiche e geostrategiche dell’alta finanza, così come gli algoritmi e l’informatizzazione dei flussi di vendita e di acquisto di titoli, bond, derivati, ecc.

A questa logica, i sistemi politici, i partiti, così come i governi si sono adeguati, divenendo i meri esecutori di tale politiche. Semmai possono esserci sfumature nell’applicazione, nel nome di un welfare morente da parte dei socialismi e dei laburismi, o di una libertà totale del mercato da parte dei neoliberisti di varie tipologie, che non alterano la sostanza della politica stessa.
E laddove la politica, il sistema di democrazia rappresentativa entra in crisi, o  non garantisce tempi brevi nelle decisioni, subentrano i soggetti che direttamente rappresentano interessi globali dell’alta finanza e delle multinazionali. Così è successo in Grecia, quando Papandreu ha cercato di arrivare a un referendum popolare sulla permanenza ellenica nell’Eurozona, sostituito d’imperio da Papademos, uomo della Trilateral. Così è accaduto in Italia con la crisi politica del governo Berlusconi sul finire del 2011, dove la Germania, nella figura del premier Angela Merkel e il comando finanziario europeo ha fatto pressione sugli alti organi dello stato italiano (Napolitano in primis) per arrivare a costituire un governo “tecnico” e “super partes”, che prendesse quelle misure necessarie al capitale finanziario per assicurarsi il pagamento dei crediti da parte dell’Italia. Un vero colpo di stato che azzera decenni di democrazia rappresentativa e fa tornare il sistema politico italiano all’anno zero.
Checché ne dica Napolitano, questo presidente ha fatto della Costituzione Repubblicana carta straccia. Il costituito ha cambiato morfologia. Siamo alla dittatura sovranazionale determinata dai centri di comando della finanza.

Queste misure del governo Monti sappiamo già cos’hanno comportato: l’esproprio della ricchezza sociale che rappresenta il valore lavoro, il risparmio di un’intera collettività, si è dispiegato nei tagli delle pensioni, dei servizi sociali, con un criterio selettivo: non si toccano le rendite da speculazione e i grandi patrimoni e si colpiscono le condizioni di vita e di lavoro dei settori sociali meno o niente affatto rappresentati nei contesti decisionali del nuovo regime finanziario monopolistico.

Anche nelle fasi precedenti a quella dell’ipertrofia finanziaria da debito, la battaglia tra classi popolari salariate e borghesie capitalistiche si giocava sul terreno dell’inflazione per aumentare il potere d’acquisto, quindi il benessere da una parte, o dare più potere speculativo nei tassi d’interessi rivalutati sull’inflazione stessa dall’altra.
Il congelamento della scala mobile ha rappresentato la fine di un ciclo di lotte e conquiste sociali da parte del movimento operaio nel nostro paese, in linea con i nuovi dettami neoliberisti, che danno più potere economico di speculazione alla finanza e riducono il salario e il profitto dei piccoli imprenditori a variabili del tutto assoggettate alle politiche monetariste e del debito pubblico e privato di queste centrali.


Non è dunque un caso che i movimenti che stanno nascendo dal 2008 in poi: l’anno in cui è esplosa la crisi finanziaria dei derivati e che segna la scelta del capitale di non sostenere più mediazioni sociali e che lascia alla devastazione dell’impoverimento i ceti medi, sono aggregati di molteplici figure di un corpo sociale con un unico interesse soggettivo: riappropriarsi della ricchezza estorta, quindi della vita, di un’esistenza decorosa, di tempo dedicato alle persone e non alla mercificazione, al debito, alla giornata lavorativa precarizzata, alle condizioni alienate di un nuovo servaggio della gleba.

I movimenti con questo comune denominatore, ossia i movimenti riappropriativi, rappresentano l’ossatura della nuova resistenza popolare al dominio del capitale, nonché la potenziale sovranità popolare in costruzione, il potere costituente in germinazione di una società che nascerà sostanzialmente dalla riappropriazione di ricchezza, beni comuni, cicli di produzione e attività lavorative ridefinite, di tempo e qualità di vita, in definitva di modalità di riprodurre l’esistenza sociale e individuale, dove al centro c’è la potenza dispiegata del valore dell’attività umana nella centralità del valore d’uso. C’è la vita garantita, il benessere universale, per tutti. Che oggi si esprime nella rivendicazione di un reddito universale di cittadinanza. Davanti all’esproprio da parte della legalità capitalistica imposta della ricchezza sociale e del valore della collettività, si dispiega l’illegalità di massa della riappropriazione nei suoi mille fronti di lotta, nei suoi mille aspetti che avviano un’esistenza liberata sin da ora, nel territorio, negli spazi contesi all’avversario di classe, nell’occupazione di luoghi e ambiti della riproduzione economica e sociale, in forme economiche illegali o non riconosciute che danno servizi, reddito, relazioni affettive. Nella cooperazione sociale.
Non ci sono capitalismi di stato che diventano inevitabilmente enormi fabbriche della Coca Cola, alimentando la competizione tra salariati nel mondo.
Il processo di trasformazione della proprietà capitalistica in proprietà sociale non deve limitarsi a ridimensionare l’economia finanziaria a favore dell’economia industriale o terziaria del commercio e dei servizi, non deve fermarsi a un welfare della persona. Del resto la “crescita” infinita, ma in realtà finita e gravida di guerre e devastazioni ambientali eterodirette dai decisori della finanza e dei gruppi monopolistici del capitale, rende impossibile questa reiterazione della riformabilità del capitalismo stesso. La crisi è sistemica e irreversibile. Il capitalismo è nella sua fase di decadenza storica.
Questo processo deve per forza essere un mutamento ontologico della riproduzione sociale, della democrazia, quindi della sovranità popolare, del rapporto tra comunità umana e natura, risorse, eco-sistema.
Questo è il senso più profondo della rivoluzione comunista oggi.

Un aspetto importante dei movimenti riappropriativi nel cuore del capitalismo stesso: le società dell’Occidente capitalistico, è quello di essere nell’epicentro della riproduzione di modelli, valori, della “civiltà” oscena del capitale.
Dopo la fine dei patti sociali, i movimenti riappropriativi possono irrompere negli stessi spazi di esistenza delle classi dominanti. A differenza delle classi contadine africane, che di fronte all’esproprio delle loro terre da parte dei governi corrotti che li danno ai grandi gruppi capitalistici, possono lottare contro gli esecutori locali dell’esproprio, ma non attaccare la testa della catena di comando imperialista, le classi proletarie metropolitane agiscono nei medesimi spazi, nello stesso territorio dei centri del comando sovranazionale del capitale.
Nell’era della crisi di sistema, al proletariato metropolitano salariato e precario e ai ceti popolari dei centri del capitale spetta un compito strategico di vasta portata: se crolla il centro, si creano vuoti di comando e si avviano processi di liberazione nelle periferie, vengono intaccati nei meccanismi di produzione capitalistici i bacini sociali dove operano i cicli produttivi delocalizzati del capitale: in Asia principalmente, nel cuore dove si va spostando il baricentro dell’economia mondiale. Si avvia, dunque, a cascata una rivoluzione dell’organizzazione internazionale del lavoro, si aprono processi di socializzazione dei sistemi economici con un movimento geopolitico di liberazione sociale centrifugo.

Oltre quelli che furono i limiti di una rivoluzione proletaria e contadina in una formazione economico-sociale preindustriale come l’Ottobre Sovietico, che ha visto nell’avvitamento socialista del capitalismo di stato la determinazione storica inevitabile di questo processo rivoluzionario, nel livello economico e sociale raggiunto dalla relazione forze produttive / rapporti di produzione. Oltre questi limiti storici che hanno determinato il dramma delle rivoluzioni socialiste e le tare illibertarie dei movimenti comunisti  di un intero secolo, da Occidente oggi si può risolvere questo antico rovello.
In pratica l’annosa questione della “Rivoluzione in Occidente”, che tanto ha animato il dibattito e le scelte drammatiche del bolscevismo sovietico  e delle classi rivoluzionarie giunte al potere in Russia nel ’17, oggi diventa di grande attualità.
Grandi responsabilità cadono sulle sinistre anticapitalistiche e sui movimenti di opposizione al neoliberismo europei e nordamericani.
Nelle contraddizioni esplosive della crisi sistemica e delle risposte autoritarie del neoliberismo, che non ricompongono una condivisione sociale di valori e di livelli di vita in un quadro welfariano, ma portano il saccheggio e l’esproprio a condizioni inimmaginabili fino a ieri, si apre la prateria di un inevitabile conflitto sociale di classe.
Già oggi viviamo le prime avvisaglie di una conflittualità di massa contro i dispositivi di comando dell’esproprio del capitale finanziario e monopolistico, che coinvolge i più diversi settori sociali.
Sono ancora lotte parziali, per l’occupazione, contro la rapina fiscale, per i beni comuni e il proprio territorio, ma tendenzialmente vanno ricomponendosi e necessitano di una progetto politico unitario e costituente, l’embrione di una sovranità popolare che vada oltre il cane morto della democrazia rappresentativa e che si attesti a un livello più maturo di coscienza e intelligenza collettiva contro il fascismo finanziario, il nuovo autoritarismo delle élite sovranazionali del capitale.
Il capitale con il suo saccheggio del comune e della ricchezza sociale ha portato in casa sua le contraddizioni più barbare della rapina colonialista. Non è possibile un controllo sociale, una stabilità nei rapporti di forza tra classi a lungo tempo.
Non saranno i cancelli di ferro, gli allarmi e le telecamere di sorveglianza a fermare la marea dei riot imminenti.
La gestione delle società occidentali sarà sempre più difficile. Diventerà impossibile.
Se ne rendano conto.

Nessun commento:

Posta un commento