martedì 19 giugno 2012

PAURE BORGHESI NELL'AGONIA DEL CAPITALE.


 

 Il risultato delle votazioni in Grecia rivela una serie di paure che attraversano non solo la società elenica, ma l'intero continente europeo, in rapporto alla crisi dell'Eurozona.
Le definisco "paure borghesi", non tanto perché provenienti in parte dai ceti borghesi devasti dalla crisi stessa, o "minacciati" dal conflitto sociale, che leggono come caos, ma perché costituiscono la paura profonda che attraversa i paesi a capitalismo avanzato, di fronte a una situazione apparentemente senza vie d'uscita che non siano lacrime e sangue.

Questa paura di uscire dall'Europa, è la paura di perdere un modus vivendi che di fatto sta già andando a pezzi, se non è già andato. E' una paura che alla fine porta trasversalmente gran parte di tutti gli strati sociali, anche i più colpiti, a dire: non ci sono alternative, stiamo dentro il sistema Europa e contrattiamo alla meno peggio.

Ho parlato di paure perché sono almeno tre, in relazione ai ceti sociali che le esprimono.
C'è la paura più diretta e lineare, ossia quella parte della società che ha tutto da guadagnare dalla crisi e tutto da perdere dal cambiamento radicale della socializzazione, dell'insolvenza e della modifica strutturale dei rapporti di forza a favore della classe operaia, e dei ceti proletari e popolari. Una componente sociale sempre più ristretta nella polarizzazione delle differenze sociali, divaricate tra rendite parassitarie da speculazione e miseria del lavoro salariato, precario e della disoccupazione.

C'è poi la paura più sofferente e combattuta, di quei ceti sociali che vedono franare il proprio tenore di vita, ma non sanno o non possono concepire uno stravolgimento dei rapporti sociali, di proprietà, di redistribuzione della ricchezza sociale, di subordinazione a una gestione da parte della collettività intesa come potere costituente dal basso delle linee economiche di fondo.

Infine, c'è la paura sorda, sempre presente nella piccola borghesia dl vecchio continente, nelle sue birrerie mitteleuropee, come nelle taverne mediterranee, che porta a soluzioni autoritarie in chiave nazionalista, con punte di socialismo demagogico. La rinascita delle destre reazionarie, un processo che si sta sviluppando da anni, sta lì a dimostrarlo.

In questa chiave va vista la sconfitta di Shiryza e della sinistra antagonista in Grecia, sempre nel quadro di un paese spaccato in due, che si dibatte tra rivoluzione sociale e tracce di antichi sicurezza e benessere sociale che non esistono più.
E da questa analisi partono due considerazioni.

La prima è che se è vero, come sostengono David Graeber e gran parte delle sinistre rivoluzionarie anarchiche e marxiste di movimento, che il capitalismo ha il tempo contato (Graeber, nella sua intervista a Rainews24 addiritturalo quantifica: 50 anni), è anche vero che questa agonia, questa impossibilità di riproporre al mondo un sistema di relazioni iniquo ma con ammortizzatori e tutele, un welfare gestito da uno stato piano ormai travolto dai poteri forti della finanza che tutto decidono, può essere un'agonia molto più lunga di quanto ce la possiamo pensare.

Questo perché: i ceti medi, nonostante la devastazione sociale che avanza, saranno l'ago della bilancia: perché le loro illusioni creeranno paura, titubanza, speranze di una restaurazione di antichi patti sociali. Sbagliano quindi coloro, che ancora una volta ci parlano di contraddizioni insostenibili e di crollo. E' dagli anni '70 che ci prefiguriamo (mi ci metto anch'io) scenari apocalittici per il capitale, con tutte le ricadute soggettivistiche fallimentari nella prassi rivoluzionaria.
E' un perché parziale, ce ne sono sicuramente altri a un'analisi più profonda. Ma questo di superficie basta a giustidìficare la battuta d'arresto del movimento antagonista greco nella tornata elettorale. 
Non un arresto del processo conflittuale sociale, ma significativo per comprendere i rapporti reali di forza nella società e ciò che si agita nella "pancia" della società greca.

La seconda considerazione è che, se è vero questo, che l'agonia è lunga, l'impostazione di una strategia politica rivoluzionaria, deve tenere conto di queste contraddizioni tutte interne al corpo sociale, anche di classe.
Nell'intervista di Contropiano a Bernard Riexinger co-segretario della Die Linke, il maggiore partito della sinistra radicale tedesca, si legge:

"Il compito di ogni movimento di lavoratori è di lottare per la difesa dei propri interessi all’interno di ogni singolo Paese. Naturalmente certi problemi sono comuni perciò sarebbe un pessimo viatico vedere una soluzione solo all’interno dei propri confini. Sotto il dominio di un capitale globalizzato le lotte possono avere sbocchi positivi in un quadro di collaborazione fra chi è investito dal problema comune, come lo sono i ceti popolari di ogni nazione europea."

Questo è esattamente l'esatto contrario di ciò che si deve fare per sviluppare un'organizzazione e un'iniziativa di lotta vincente. L'impostazione nazional-kominternista di  Riexinger, da "partiti fratelli", non coglie il salto di qualità che le lotte più avanzate, Occupy, Indignados spagnoli, hanno fatto con una certa spontaneità, ma con ricadute immediate nel quadro politico internazionale.
L'elemento forte è il coordinamento, l'internazionalizzazione delle lottte sociali e non una semplice collaborazione tra forze politico-sociali con punti in comune.
Dal capitalismo si esce su un piano di liberazione e contropotere dal basso su scala internazionale, o non se ne esce.

Per essere più precisi e pragmatici: non si può pensare di stare in un'Europa, dove in un paese c'è un processo di socializzazione dei beni, dei processi, dei dispositivi di governance, di redistribuzione della ricchezza sociale, mentre in altri contesti no. Se puntiamo a un'Europa dei popoli, il fronte è internazionale e va addirittura ben oltre i confini del vecchio continente.

Già nel "secolo breve" delle rivoluzioni proletarie, questo errore è stato fatto. Si chiamava prima NEP e poi "socialismo in un solo paese". Nel primo caso poteva avere una sua sostanziale giustificazione dal fatto che l'URSS accechiata dagli imperialismi e arretrata economicamente, nel gap tra economia rurale patriarcale e primi insediamenti industriali, doveva compiere un salto economico per la propria indipendenza e per rafforzare la democrazia del proletariato e dei contadini. 
Ma oggi questa reiterazione automatica, di default, di meccanismi autoreferenziali, nazionali, che diventano reazionari sin dal principio, rischia di contrastare il processo rivoluzionario in atto su scala internazionale.

Il capitalismo crolla, perché non può più dare sbocco alla socializzazione reale delle forze produttive, al lavoro vivo non più riconducibile alla salarizzazione in un contesto di distruzione del lavoro, di posti di lavoro. Perché la crisi di sistema è una crisi di valorizzazione che ha per controtendenza un ipermonetarismo che cessa di essere controvalore dei beni e dei mezzi diffusi nelle nostre società.
L'ultimo atto del capitale è la moneta come atto politico di esproprio del comune, dei beni, della ricchezza sociale. Non è un valore simbolico legato a qualcosa di materiale, di scambiabile. E' valore convenzionale arbitrario e fittizio che viene usato come strumento di dominio. Il dominio del debito.

La socializzazione dunque, non è riportare il lavoro salariato a uno stato piano che garantisce tutele, mantenendo intatto il modo di produzione capitalistico nella sua insolubile questione della crescita impossibile e nella riproduzione di un corpo sociale salariato, subordinato ai ceti dominanti, che siano privati o statali. Welfare e socialismo hanno fatto il loro tempo.

La transizione è subito autogestione del comune, liberando ricchezza sociale e reddito diretto e indiretto a livello universale, per tutti.
Dunque, dietro le difese nazionali di un certo radicalismo di sinistra, si cela la riproposizione del socialismo reale in nuove salse. E questa tendenza politica va contrastata poiché allunga i tempi dell'agoniua del capitale.

La strategia politica rivoluzionaria supera i grumi di burocrazia partitocratica delle sinistre europee. La stessa Federazione della Sinistra, non comprende che il programma rivoluzionario di socializzazione è nello sviluppo dei movimenti antagonisti in tutte le singole specificità che riassumono una comune rivoluzionaria, il potere costituente che attraversa tutti i ceti sociali, a partire dalla ricomposizione politica a classe per sé del proletariato urbano, dell'operaio sociale, dalla fabbrica a tutte le dimensione della riproduzione sociale.

La migliore risposta ai dilemmi dei ceti medi e popolari è la polarizzazione del conflitto sulla questione: o la rapina del capitale finanziario sui beni privati e comuni, la sua organizzazione del lavoro e del tessuto imprenditoriale delle piccole aziende, oppure gli stati generali dei cittadini che si riappropriano di spazi, di attività, di ricchezza sociale, garantendo il reddito a tutti, in forme autogestite dal basso dell'economia. 

La reale democratizzazione dell'economia, la reale transizione "socialista" è nella liberazione dai ritmi, dai tempi, dalla produttività data dal sistema lavoro del capitale, dalle sue condizioni di esproprio della ricchezza prodotta. La socializzazione guida forme di attività economica miste, che hanno come centrale il valore d'uso per la collettività, il reddito garantito a tutti. Non la piena occupazione, non la misura del valore data dal lavoro.

La socializzazione libera energie sociali, costituendo dal basso una sovranità politica, economica, alimentare, energetica, ambientale, mediatica.
Solo i movimenti, espressioni di ceti sociali in movimento, possono garantire questo punto forte e focale del passaggio rivoluzionario. Non le vecchie rappresentanze politiche e sindacali.

Le avanguardie politiche sono al tempo stesso componenti sociali, sono espressione diretta, autogestita e diffusa ne corpo sociale di questo contropotere in gestazione.
la ricomposizione politica avviene se è anche sociale e riassume tutte le istanze che provengono da settori sociali che non puoi comunque trattare alla stregua dei kulaki.

La sinistra in genere è vecchia proprio per questo. Perché antileninista, perché incapace di costruire programmi minimi, alleanze e aggregazioni sociali e di movimento che spostino i rapporti di forza. Non riesce a farlo nonostante il conflitto sociale in atto.
Non coglie la complessità per portarla a sintesi.

Nello scontro epocale e mortale contro le forze dominanti del grande capitale e della finanza, l'idea comunista deve emergere in tutto il suo valore di ideale universale, sulla base delle condizioni materiali e storiche e delle forze sociali che compongono lo scenario delle contraddizioni sociali.
Questo è il marxismo. Oggi come ieri.




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