giovedì 13 gennaio 2011

I CAPPONI DI RENZI


Evidentemente non ci si rende bene conto di quale sia la posta in gioco con il referendum di Mirafiori e di quale ruolo stia giocando la Fiat (si parla sempre di Marchionne, ma rendiamoci conto di chi sono gli attori in questo scenario, gli interessi, i poteri del capitale finanziario che si stanno muovendo...).
In gioco ci sono i diritti del lavoro conquistati in oltre un secolo di lotte democratiche e sociali, un'idea di società e di democrazia basata su contrappesi che rendono meno diseguale il sistema capitalistico, verso un liberismo ancora più selvaggio e senza regole.
Il ruolo della Fiat è quello di fare da apripista a un capitalismo che non avrà più remore e barriere nel ridurre ogni ambito del vivere civile agli interessi privati e di ceto di chi ha il potere vero nel paese.

E in questo gioco, che gioco non è, ma è tragedia, vengono fuori gli imbecilli, come Matteo Renzi, il sindaco di Firenze, che rivela una volta per tutte quale sia la vera pasta con cui sono fatte le nuove generazioni di politici del centro-sinistra. Il quale sostiene che una volta tanto che la Fiat investe in Italia, dire no non significa essere di sinistra e avere ragione. E si accoda al Berlusca nel benedire il sì che verrà estorto ai lavoratori di Mirafiori.
Dietro il pragmatismo dell'ineluttabilità dei conti, si cela la caduta verticale di valori. Dietro il fare bene il proprio compito c'è nella migliore delle ipotesi il cretinismo di chi non ha null'altro da proporre che una gestione dell'esistente secondo l'agenda di chi mena le danze da sempre. Nella peggiore la complicità (nella cinica disinvoltura) con i ceti dirigenti del paese. Al primo cittadino fiorentino il pranzo ad Arcore sarà piaciuto.

La questione vera è duplice: a sinistra non esiste un'idea di alternativa economico-sociale al neoliberismo selvaggio. E questo dà spazio alle anime candide come Fassino e Renzi, vecchi e nuovi aedi di un falso riformismo.
E di conseguenza non c'è una forza politica che rappresenti gli interessi generali del lavoro dipendente, del precariato, della disoccupazione, del sommerso. Ma neppure dei ceti produttivi, quelle sacche di lavoro autonomo e di piccola imprenditoria falcidiate sia dalla crisi che dalla indistinta e burocratica pressione fiscale.

Il PD rappresenta in Italia, nelle sue correnti interne, il fallimento del riformismo. Con una sostanziale differenza rispetto ai socialismi europei. Che questi ultimi hanno fallito cercando di conciliare i conti della serva con i connotati sociali di riferimento. Il PD invece è andato ben oltre, raffigurandosi come forza del tutto interclassista, in un modernismo di facciata che accoglie tutte le peggiori ricette neoliberiste. Merda ideologica che difficilmente troverebbe consensi in Francia e in Spagna, per esempio.

PD e sinistra radicale, divise nelle posizioni di fondo, si trovano entrambe spiazzate di fronte all'offensiva delle destre. La prima per totale acquiescienza alle logiche del neoliberismo, la seconda perché puramente resistenziale. Priva di dinamismo verso le nuove espressioni di antagonismo e partecipazione sociale (ed econonica!!!). Sono i due capponi che vanno in pentola alle prossime politiche.

Da queste sconfitte inevitabili del nostro movimento operaio (inevitabili perché manca il soggetto politico di classe che rappresenti appunto la classe, perché la FIOM è un sindacato e sta facendo da partito d'opposizione, con tutti i limiti del caso), da questa situazione che giungerà al collasso della convivenza civile, nascerà qualcosa di nuovo. Almeno si spera. Che non è neppure nelle passeggiate torinesi di Vendola.
La forza antagonistica della classe, la sua autonomia politica, l'autorganizzazione dal basso, si incaricheranno di mandare un bacione a Firenze.

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