venerdì 6 gennaio 2012

IL CERVELLO ALL'AMMASSO DEGLI INTELLETTUALI DI SINISTRA.



La chiamo sinistra per capirci, ma ormai di sinistra non ha più nulla. Sono ormai trent'anni che gli intellettuali di questa provenienza appartengono alla koiné del pensiero unico. Le guerre per il controllo delle fonti energetiche da parte delle potenze occidentali diventano “missioni umanitarie”, si disquisisce su come intervenire in un quadro economico-sociale indiscutibile, sposando il neoliberismo delle privatizzazioni e dello smantellamento delle garanzie e delle tutele del lavoro. Ichino con il suo attacco allo statuto dei lavoratori, Cacciari con la sua idea di governance della res publica che sposa la politica della Trilateral per la riduzione della democrazia nella concentrazione delle decisioni in supergoverni “tecnici”, sono solo due esempi, ma eloquenti.

Il punto è che, di fronte ai grandi nodi che il capitalismo ha posto nella sua crisi strutturale sul finire del secolo scorso, un'intera generazione di politici e di intellettuali della sinistra non hanno voluto e potuto trovare una risposta al di fuori di questo ambito. I problemi del capitale sono diventati problemi della collettività, l'interesse del capitalismo, dei gruppi forti e dominanti, sono diventati interessi generali, nazionali. La crisi stessa ha posto al riformismo il grande dilemma: o la contrapposizione nell'interesse delle fasce più deboli o l'ingresso nel mainstream ideologico-politico, nel dogma più devastante della modernità: quello del profitto.

Per questo il riformismo è morto. Se vogliamo dargli una data omega, in Italia possiamo fissarla nella seconda metà degli anni Settanta, con la politica di solidarietà nazionale e dei sacrifici. Un'epoca osannata dal PCI di allora e dal PD di oggi come unità contro il terrorismo e come responsabilità verso il paese. Ma se guardiamo più da vicino la traiettoria che ha avuto la più grande forza politica comunista dell'occidente, possiamo vedere la sconfitta e l'abbandono di un ruolo di forza propulsiva verso il cambiamento della società, per due ragioni. La prima: l'incapacità di comprendere e di organizzare, di dare direzione progettuale e capitalizzarne la forza di un movimento antagonista che scardinava il quadro politico e le arretratezze culturali di quel tempo. Il PCI ha preferito la DC. La seconda è stata l'assuzione del punto di vista capitalistico tout court. L'approdo del togliattismo, della sua concezione di democrazia progressiva al socialismo, a forza correttiva delle storture della società di classe e poi ancora, alla sparizione della nozione stessa di classe, è chiaro.

Aperta questa strada, la sinistra storica italiana, si è fatta agente delle peggiori politiche del capitalismo italiano e di quello internazionale. Il capolavoro, nel governo D'Alema, è stato il coniare il concetto di “missione umanitaria”, che buttava via decenni di pacifismo trasversale nella sinistra stessa e nel mondo cattolico, per sostenere un ruolo attivo nelle politiche militaristiche del blocco NATO. Il grimaldello per scardinare l''art.11 della nostra Costituzione e per partecipare a tutte le avventure militari della NATO.

Mi limito a prendere la guerra come esempio di questo passaggio della sinistra storica alle ideologie dominanti dei centri di potere capitalistico.
Non starò qui a sostanziare l'organicità della guerra alle dinamiche dell'accumulazione capitalistica, al ruolo del welfare di guerra e al ruolo di volano per l'intero sistema che ricoprono i complessi militari industriali. Ma molto semplicemente un'intera intellettualità non si è posta il problema. Un riformismo che non tutela la pace mondiale, che sostiene le campagne mediatiche contro il mostro del momento, che approva la dottrina della “polizia internazionale” per guerre non dichiarate tra stati, e dissimula il carattere reale della guerra contemporanea: il terrore contro le popolazioni aggredite (gli effetti collaterali sono gli obiettivi militari veri), non è più riformismo: è l'altra faccia della destra reazionaria.

Come sia potuto accadere tutto questo, è importante comprenderlo. Perché in questa fase di forte attacco del capitalismo alle condizioni di lavoro e di vita di interi strati sociali, persino dei ceti medi, di debito pubblico come leva per sconvolgere nei paesi a capitalismo avanzato il rapporto capitale/lavoro e il rapporto democrazia/poteri forti e per mantenere più quote di profitto possibili nei conti e nei movimenti speculativi delle holding e dei gruppi multinazionali e finanziari, è urgente ricostruire un pensiero critico, un progetto globale di trasformazione della società verso i bisogni della maggioranza della popolazione italiana, europea e mondiale. Per un modello di produzione e consumo organizzato a partire dal bene comune al benessere di tutti e alla eco-sostenibilità. Parole che suonano come bestemmia e utopia per le dirigenze del riformismo morto, ma che in realtà sono ancora più attuali oggi rispetto a ieri.

Concludo iniziando a dare una prima risposta a questa involuzione ideologica al pensiero unico da parte della sinistra storica. L'adesione al punto vista avverso ha corrisposto a un salto burocratico degli apparati verso l'occupazione clientelare e spesso nepotistica dello stato e delle pubbliche amministrazioni, verso un'imprenditorialità industriale e finanziaria spregiudicata, che spesso ha fatto leva su elementi originari di solidarismo tra produttori come le cooperative.
Ma molto ancora c'è da analizzare, per contrastare questa deriva e recuperare a una coesione progettuale alternativa e a una solidarietà di classe, quella parte di popolo di sinistra che sta già sentendo forte il richiamo della foresta.
Anche i limiti della politica della sinistra radicale e la sua arretratezza nell'interpretare e leggere ciò che sta accadendo e nel proporre un progetto politico forte.

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