domenica 5 giugno 2011

CHE SALO' RESTI NELLE FOGNE


Ancora una volta dal PdL arriva la proposta di equiparare il trattamento pensionistico dei repubblichini di Salò a quello dei partigiani e dei soldati italiani che dopo l'8 settembre 1943 combatterono nell'esercito italiano, a fianco delle truppe alleate.

La motivazione, alquanto bizzarra, sarebbe perché il conflitto che oppose i militari della Repubblica Sociale Italiana alla Resistenza partigiana fu una guerra civile.

Già suona strano il fatto di mettere sullo stesso piano chi combattè per una società libera dalla dittatura fascista, dunque democratica e chi fu con il fascismo stesso. Infatti non mi risulta che le forze politiche antifasciste, dal PCI alla DC, passando per i liberali e gli azionisti, abbiano realizzato nel dopoguerra una repubblica socialista di stampo staliniano.

Ma poi è il concetto stesso di guerra civile a stridere, poiché il convitato di pietra di questo ragionamento è la presenza dell'esercito di occupazione nazista. Dunque la Resistenza armata al nazifascismo non fu guerra civile, bensì guerra popolare di Liberazione.

Sotto questa luce non c'è dubbio che i repubblichini sono stati considerati e sono tutt'ora da considerarsi traditori della patria.

Non facciamoci ingannare dalle frasi roboanti di un falso patriottismo. La realtà di Salò era la collaborazione sanguinaria con le truppe di occupazione tedesche. I repubblichini erano partecipi delle deportazioni di cittadini italiani, militari, ebrei, giovani buoni per il lavoro forzato in Germania. Sanguinaria perché le torture, gli eccidi sulla popolazione, la distruzione di case e borghi, i saccheggi sono state pratiche del nazifascismo, non dei partigiani. Pratiche tipiche di un esercito occupante di un regime totalitario.

Non che il concetto di patria (sono orgoglioso di essere italiano proprio grazie al Risorgimento e alla Resistenza), mi impedisca di avere una nozione più vasta di patria, ossia il mondo e di un sano internazionalismo che lega tutte le classi popolari oppresse e sfruttate del pianeta. Ma l'accusa di traditori della patria, ossia del popolo italiano, ai repubblichini ci sta tutta.

Non mi interessano i "casi umani" di Pansa, dove di notte tutte le vacche sono nere. Su questi non si fa ricostruzione storica e analisi politica. Su questi non si mantengono salde le ragioni della nostra democrazia, la genesi costituente della nazione, che unisce il nostro popolo, che lo ha fatto entrare in un contesto più vasto di modernità europea a testa alta, pur con tutte le contraddizioni della nostra storia. Pur con la strategia della tensione e i condizionamenti forti che ha avuto la nostra democrazia in decenni di regime democristiano, e tutt'oggi con il berlusconismo, volto osceno del piano di rinascita "democratica" di stampo liciogellista. Pur con i rischi di un ritorno indietro di settantanni sui diritti del lavoro, i diritti civili e di cittadinanza, che oggi sono più che mai incombenti, anzi, in atto.

Anzi, proprio per tenere la barra dritta a un processo democratico nell'economia, nel sociale, nella cultura e nei media, occorre contrastare queste mene revisionistiche. Fanno parte di un progetto di smantellamento selvaggio delle conquiste sociali e sindacali. Le parti migliori della società italiana, non è retorica, scrissero col sangue la storia futura del paese, le potenzialità di una democrazia che mette al centro il bene comune, che limita il potere privato sull'economia, nell'interesse collettivo, che rende tutti i cittadini uguali davanti alla legge, che ripudia la guerra perché è stata vissuta sulla pelle dei nostri padri ed è una barbarie che deve uscire dal consesso umano. Queste potenzialità difendiamole, ci sono ancora. Non buttiamole via con un riconoscimento postumo della peggior feccia della storia italiana.

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