venerdì 29 luglio 2011

GENOVA PER NOI... GENESI DELL’AUTONOMIA POLITICA DI CLASSE




Ho molta stima per Jacopo Fo e le domande che si fa su il Fatto quotidiano non sono certo peregrine. Il tema della nonviolenza nelle manifestazioni di massa della sinistra e del pacifismo s’intreccia con l’autodifesa militante delle medesime. Le lotte sociali presuppongono da sempre la legittimità dell’autodifesa, così come l’azione politica di massa che si traduce nell’occupazione delle terre, delle fabbriche, nel sabotaggio e nel boicottaggio della macchina guerrafondaia dell’imperialismo e così via.

Pratiche che ne segnano la storia, quella delle classi popolari che si oppongono all’egemonia spesso violenta e autoritaria delle classi egemoni, del capitalismo anche nei sistemi democratici parlamentari, che lottano per affermare diritti, sino alla lotta rivoluzionaria stessa per una nuova società.
In questo solco c’è l’esperienza dei movimenti operai e contadini, delle organizzazioni sindacali e delle leghe dei lavoratori, e come non citare la grandi lotte sociali degli anni ’60 nell’occidente capitalistico? Come non citare addirittura le lotte non certo di paradigma marxista o anarchista, come quelle del gandhismo o degli afroamericani di Luther King?


Proprio sulla base di una visione più generale – secondo me necessaria – delle esperienze storiche e politiche dell’antagonismo di massa, non sono d’accordo con le conclusioni a cui Jacopo Fo arriva su Genova.
Jacopo Fo si pone il problema della criminalizzazione del movimento, quindi della necessità di calibrare iniziative meno invasive, come manifestare senza cercare di invadere la zona rossa. Dimostrando così una visione un po’ ingenua dello scontro politico. Perché provocatori e black blok esistono e operano a prescindere dal modo di porsi sulla piazza di un movimento.
Non voglio dire che l’attacco ai manifestanti ci sarebbe stato lo stesso. E non voglio nemmeno evitare la necessità di isolare quei soggetti che con la loro violenza politica priva di construtto rovinano i movimenti stessi. Tutt'altro!

Ma se vediamo la cosa su un piano politico più generale, la criminalizzazione a mezzo media e le azioni dell’avversario di classe vengono messe in opera comunque.
Il regime punta comunque a colpire e devitalizzare le forze politiche autonome, non inquadrabili in un "normale e normato" svolgimento del confronto tutto interno al sistema politico vigente.

La conclusione a cui arriva Jacopo Fo è che il movimento a Genova ha perso. Io sono convinto invece del contrario. Innanzi tutto perché una lotta ha senso per il suo valore politico, e su questo c’è coincidenza con Fo: il contrasto alle politiche neoliberiste e di sfruttamento messe in atto dal capitalismo internazionale e dai suio establishment è un denominatore comune. Ma una lotta ha senso anche e soprattutto se rappresenta una crescita politica dei soggetti che la fanno. La maturità politica dei movimenti attuali (vediamo proprio in questi giorni la forte e consapevole resistenza del movimento no TAV, il suo carattere fortemente politico) ha un passaggio importante proprio con Genova.

Se un movimento o una forza politica non si abbandona a condotte autoreferenziali come il crearsi una “riserva indiana” che non comunica con il resto dei soggetti sociali, o autodistruttive come la lotta armata in un contesto sociopolitico più o meno democratico-parlamentare, una lotta che mette in campo una forza di massa coesa e politicamente omogenea, pone le basi per passaggi più avanzati. Le pone perché una crescita dell’organizzazione di massa e dell’azione che sposta pesi politici nel paese crea coscienza della propria forza materiale e, a una crescita del movimento, l’azione consente di riassestarsi su un piano ancora più avanzato di consapevolezza e di incidenza nella politica del paese.

A Genova, il “movimento dei movimenti” ha messo in campo la sua radicalità. Da allora sono finiti i ragazzi del ’95, delle scarpette da ginnastica, le varie pantere, le lotte frammentarie e limitate per contenuti degli anni ‘80 e ‘90. E’ nata un’opposizione politica a un sistema di potere capitalistico globale e globalizzante, che del resto non poteva non generare come risposta una critica politica globale al sistema stesso.

A Genova si è capito col sangue versato nel sacrificio di migliaia di attivisti dalla Diaz a Bolzaneto, nelle piazze genovesi, e nella morte di Carlo, che rispondere è possibile. Rispondere con una narrazione diversa che diviene patrimonio politico acquisito, memoria storica. Una risposta politica che si è fissata con forza anche nelle generazioni successive di militanti anticapitalisti e del pacifismo. Che è entrata nei sepolcri imbiancati dei partiti della sinistra.
Quello che è passato nel paese è che le manifestazioni genovesi non erano episodi genericamente eversivi, semplicemente e linearmente criminalizzabili secondo gli schemi calogeriani di vent'anni prima, ma lotte sociali, di popolo per un’alternativa sociale al sistema di spartizione del mondo messo in atto dai grandi. Non una coscienza comunista compiuta, ma comunque una visione progettuale omogenea di società libera dalla rapina delle multinazionali sul bene comune, dallo sfruttamento selvaggio dei popoli del terzo e quarto mondo e dei giovani, dei lavoratori dei centri metropolitani dell’occidente avanzato, in preda alla precarizzazione e alla disoccupazione.


In questo, a Genova si è vinto. E il testimone in queste settimane è stato passato in Val di Susa. Le forze migliori dell’antagonismo sociale e delle lotte dei decenni passati hanno capito benissimo che l’alternativa a questo stato di cose non è praticabile su un mero terreno militare. Le decine di compagni che non ci sono più e di incarcerati duranti i cicli di lotte degli anni ’70, sono lì a dimostrarlo. Che c’è una Costituzione formale che va fatta vivere come Costituzione materiale di una società scevra da diseguaglianze e autoritarismo di classe. Che la forza democratica, di democrazia diretta delle classi popolari che si danno organizzazione e iniziativa politica è più fortie di qualsiasi disinformazione, velina, provocazione.

A Genova si è esercitata autonomia politica dei soggetti, in modo intelligente, maturo. Perché anche i tentativi di forzare la linea rossa non erano basati su atti violenti. autocelebrativi. Lo stesso Fo parla di gomma piuma. E allora di che parla? Che forse perché in Birmania l’esercito spara se vai in piazza e sei un "delinquente politico" a prescindere, i monaci buddisti e le opposizioni al regime non devono scendere in piazza? E’ un esempio lontano da altri ben più facili ma tremendamente comunisti...
Ma eloquente.

In concreto: sappiamo che un’autoconvocazione come hanno fatto gli indiñados spagnoli nelle nostre piazze italiane non avrebbe storia. Non durarebbe due giorni. Poi interverrebbe la polizia manu militari. Oggi nel nostro paese c’è un regime di destra, Jacopo Fo stesso ce lo ricorda. Ma nel suo ragionamento non dovremmo far nulla, dovremmo sederci in riva al fiume e aspettare il cadavere politico del regime. E la politica che incide la farebbero ancora una volta le forze borghesi.
Per troppi anni in Italia abbiamo visto al centro della scena politica i rappresentanti del sistema boghese, le cricche in lotta tra loro, senza esclusione di colpi nell’editoria e tv e il popolo di sinistra coma “massa di manovra” degli uni contro gli altri.


Genova ha dato una sterzata, che si vede bene oggi. E si chiama autonomia politica delle organizzazioni e delle realtà di classe e di opposizione reale, concreta a questo regime economico-sociale e politico. Ha indicato la strada, caro Jacopo. A Genova non c’è stata una battuta d’arresto, una decrescita delle forze di opposizione, ma per dirla militarmente, abbiamo avuto una testa di ponte politica da cui non si è più retroceduti.
E più il movimento cresce e diviene di massa, più l’azione incide, più la consapevolezza della propria forza materiale cresce, più le lotte che occupano, bloccano, boicottano, mettono in ginocchio la controparte, la costringono a scelte che poi pagano in termini di consenso. Si spostano rapporti di forza tra classi, tra forze politiche in lotta. Questa crescita è "potere contro" ... il potere costituito. Il contropotere trae la sua forza dalla classe per sé.

I tempi attuali lo esigono. Non dovrà esserci più tregua per le forze del capitale. Non danno alcun futuro a tutti noi. Noi non ne daremo a loro.

La lotta continua.

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