giovedì 30 settembre 2010

QUALE SINISTRA? QUALE DEMOCRAZIA?



Completo il ragionamento dei precedenti post, guardando ai fatti spagnoli. Ancora una volta, dopo la Grecia, se non ce ne fosse ancora bisogno, le socialdemocrazie europee dimostrano tutti i limiti della loro politica economica e sociale. Ciò si evince soprattutto nei momenti di crisi, quando casca l’asino. Tagli degli stipendi statali del 25%, facilitazioni ai licenziamenti... la questione di fondo è che costoro cercano di mantenere le plusvalenze del sistema finanziario, il sistema speculativo della finanza, gli interessi dei ceti borghesi e del capitalismo dominanti a discapito delle classi popolari. Questo è. E questa è la ricetta anche del nostro “beneamato” PD.


Il mio raginamento sulla presenza e l’attività organizzata di una forza comunista, potrà sembrare “vetero”. Ma qui non si tratta di rieditare la dittatura del proletariato. Qui si tratta, nell’ambito di un contesto di democrazia liberale, di far emergere la forza materiale della classe, ricomponendo i bisogni sociali attorno a un programma. Questa forza deve essere forza candidata all’egemonia culturale e politica, a livello nazionale ed europeo.

E' evidente che questo processo di costituzione politica di un’organizzazione di classe, di un’autonomia di classe nei punti portanti della società e del mondo del lavoro, è di per sé processo rivoluzionario.


L’espressione politica di questa forza e delle realtà organizzate a cui partecipa e di cui favorisce lo sviluppo, è una presenza conflittuale, nei confronti delle politiche neoliberiste sia di destra che di “sinistra”, dentro le istituzioni, nel contesto elettorale, in tutta la società.

La qualità, rispetto alle lotte degli anni ’70, è nel non riproporre una cultura dell’illegalità finalizzata a un ribellismo accademico e meccanicistico. Anche se va da sé che la questione dell’illegalità è sempre relativa al punto di vista di chi controlla la società, la governa e decide una scala di valori e di comportamenti.


La Costituzione formale, creata dai padri fondatori del sistema democratico italiano e la costituzione reale, ossia il potere costituente, consiliare, dell’organizzazione dal basso, non sono antitetiche. Anzi, quest’ultima rappresenta un anticorpo essenziale alle tendenze autoritarie ben presenti oggi nel paese. E' la condizione della democrazia stessa, nel momento in cui le forze che si dicono democratiche abdicano al loro compito di espressione di quelle parti di società civile assoggettate alla narrazione dominante mediatica.


Questo è, a mio giudizio, l’antagonismo politico rivoluzionario di inizio millennio, nelle democrazie liberali occidentali.

Va da sé che sul piano della gestione della res publica, dell’economia e della società, l’opzione che le socialdemocrazie e i lib lab d’ogni tipo hanno portato avanti sinora soprattutto in tempi di crisi, è inaccettabile per l’interesse generale, per la dignità della vita di milioni di persone, per il benessere che dovrebbe essere garantito a tutti in una società civile. E lo dico a partire da un punto di vista di classe, come comunista, sapendo quanto venga sbandierato da costoro il concetto di “intereresse generale”, con categorie fumose come “gli italiani”, “l’Europa”. Come se questa ambiguità non favorisse poi sul piano pratico delle politiche il divario iniquo e vergognoso tra parti sociali, le ingiustizie, l’egemonia di gruppi capitalistici e finanziari, di consorterie e lobbies che reggono il potere reale nelle società occidentali europee.


La nascita e la crescita di un nuovo soggetto, dichiaratamente antiliberista, di più: anticapitalista, non solo è auspicabile, ma è doveroso proprio per quegli “interessi generali”, estendibili al pianeta, all’eco-sistema, al modo in cui l’essere umano vive e si relaziona in questo mondo e con questo mondo. Questo le socialdemocrazie, in massima parte non lo capiscono o meglio: non vogliono capirlo deliberatamente. Usano parti delle tematiche sociali, del lavoro ed ambientaliste solo in funzione demagogica, ma da parte loro non esiste alcuna politica di trasformazione radicale dell’esistente, oggi necessaria e urgente.

In ambito europeo, la Spagna e la Grecia lo evidenziano: nel momento in cui la crisi porta in rotta di collisione le parti sociali e quindi, le socialdemocrazie e i socialisti mostrano tutti i limiti delle loro politiche, è il momento giusto per portare questa rottura sociale a forme di organizzazione più elevate e a vere e proprie autogestioni consiliari, allo sviluppo di un potere (o contropotere) costituente dal basso.

Deve crescere un soggetto politico autonomo delle classi popolari.


Riformismo vuol dire ri-formare, ossia dare nuova forma a qualcosa di esistente. Ma qui il problema non è di forma, è di sostanza. Di contenuto. Il cambiamento deve essere rivoluzionario. Questa ritengo sia la linea di demarcazione tra una politica della sinistra supina agli interessi forti, dei gruppi dominanti, che diviene parte in causa di scontri interborghesi e una politica autonomia e “anti”, possibile e non utopistica. Il che non significa rinunciare ad alleanze elettorali, convergenze, al dialogo a sinistra. Ma tenendo bene ferma la barra del timone sullo sviluppo della forza di classe, del soggetto politico autonomo e della centralità di quello che avviene nel paese reale: le lotte sociali e i movimenti.


Una postilla su un aspetto che potrebbe riportare ad antiche questioni: la violenza politica. Francamente penso che in un sistema democratico parlamentare e nelle democrazie liberali in generale, un movimento e una forza politica che lavora per la democrazia dal basso su valori di espansione dei diritti civili e del lavoro, non debba avere la violenza come metodo di lotta politica, al di là di episodi estemporanei, che comunque non possono andare al di là di una generica comprensione se risultano essere il prodotto di un’esasperazione sociale e non di abili e collaudati provocatori, come spesso avviene. Ma comunque forme di lotta non adottabili a modello di azione politica.

Il cambiamento rivoluzionario deve essere il prodotto di un ampliamento della democrazia e della coscienza civile, utilizzando gli strumenti consentiti dal sistema democratico vigente e trovandone di nuovi, comunque nel rispetto delle altrui opinioni. Pluralismo e comunismo devono trovare oggi una sede comune. La violenza delle avanguardie che surroga l’arretratezza di masse culturalmente non preparate, o di condizioni economico-sociali non ancora mature, è sempre foriera di tragedie umane. Impariamo dagli errori, se ci sta a cuore veramente il bene comune e il rispetto della vita umana.


Il mio riferimento a Gramsci nel post precedente, ovviamente, non va preso da un punto di vista di lettura politica dei fatti odierni, al contrario: è una critica alla reiterabilità dei fatti, prendendo il metodo gramsciano come metodo di analisi e di metodologia della prassi. Di affrancamento da una visione meccanicistica del marxismo e del materialismo storico più in generale. Esattamente come Gramsci criticava il determinismo meccanicistico della Seconda Internazionale e alla teoria di Bordiga del crollo del capitalismo, oggi la critica va portata al meccaniscismo di una mai morta ortodossia comunista, anche in parte di quella “eretica”, che riprende i classici in modo antidialettico, senza cogliere il nuovo, la sitazione di oggi, radicalmente differente dai tempi della Rivoluzione d’Ottobre e dell’intero Novecento. E valorizzando quella funzione soggettiva che legge la realtà e nella prassi sociale e politica la trasforma riplasmandola.


Nessun commento:

Posta un commento