domenica 17 ottobre 2010

LA FIOM E' IL PARTITO DEI LAVORATORI? SEMBRA DI SI'...


Bersani commenta che la piazza di ieri "va ascoltata" e aggiunge con non poca ambiguita che devono esserci "posizioni comuni dal mondo del lavoro". Il PD, si sa, non ha aderito allo sciopero della FIOM: c'erano solo alcuni esponenti. Lo stesso Cofferati, che c'era, trova giusto che il PD non abbia aderito e che ogni partito abbia una sua politica del lavoro.
In altri tempi, fino al periodo dei DS, nonostante una politica già annacquata, era una necessità per gli eredi del PCI rappresentare i lavoratori insieme al sindacato più rappresentativo. Oggi, il PD non ha più queste velleità. Anzi, al suo interno c'è chi la pensa molto diversamente. C'è chi preferisce inciuci con l'UDC di Casini, che sostiene che chi era in quella piazza ieri, non è interno a un'ipotesi "riformatrice".

Il resto è una presenza di partiti da Idv a Rifondazione, PCdL, ecc., che hanno poca incidenza sulla piazza. Rifondazione un po' di più, per tradizione politica e per peso specifico. Ma diciamolo: il vero partito dei lavoratori oggi, è un sindacato, e neanche tutto: la CGIL e la FIOM in particolare. Il discorso di Landini ha spaziato a tutto campo, toccando tematiche meno legate al lavoro, come la presenza delle truppe italiane in Afghanistan, ha parlato di alternativa economico-sociale, che è il cuore della questione politica, anche nei suoi aspetti più costituzionali. Ha parlato di attacco alla democrazia, legandolo all'attacco ai diritti. E' stato il discorso di un leader politico, non sindacale. Su questo Bonanni ha ragione, ma è la ragione del porco che si rivolta nel suo fango, quello della svendita della democrazia economica e sociale e dei diritti del lavoro.

Quello di Landini è stato un discorso che qualsiasi leader di una sinistra europea coerente, espressione di quelle parti di società più disagiate, discriminate e sfruttate, farebbe e fa nei paesi civili come la Francia, la Germania, la Spagna.
Questo fatto però, non deve rallegrare. Perché l'assenza degli eredi della tradizione comunista, del più grande partito comunista europeo occidentale, che era in Italia, è un'assenza assordante, perché non c'è nessuno a raccogliere oggi quella bandiera.
E' l'assenza di un soggetto politico che non può essere sostituito da alcuna forza attuale della sinistra. Che lo si voglia o meno. Che si abbia o meno criticato (e io l'ho fatto e lo rivendico) il PCI per le sue politiche di compromesso storico con la DC, di "sacrifici" negli anni '70. Perché che lo si voglia o meno, quello era il partito della classe operaia. Poi sul quando abbia smesso di esserlo, occorre farci su una bella analisi, perché le fasi politiche non sono così schematiche. Ma così è stato.

Pertanto, oggi abbiamo una classe operaia e un mondo del lavoro salariato più in generale, che non ha alcuna forza politica rappresentativa, ma neppure un fronte di forze, ossia un'entità politica coesa, che si ritrova su un progetto unitario, su una piattaforma programmatica comune. Questo è grave. Questo inevitabilmente ha delle ricadute politiche nella fisiologia delle lotte sociali che, anche per questo, e non solo per una frammentazione della composizione di classe in mille soggettività del lavoro e nel territorio, sconta una mancanza di unità organica, di ricomposizione dei soggetti, di un'autonomia di classe dalle politiche egemoni di governo e dei partiti politici che amministrano la cosa pubblica anche a livello locale.

La storia insegna che i movimenti operai e di classe, le sinistre, vincono quando esiste una vasta unità delle forze sociali in movimento sotto l'egida un soggetto politico. Non quando permane un residualità fatta di piccole rendite di posizione, di politiche personalistiche, di piccoli gruppi dirigenti che si autoproclamano avanguardie, di mentalità burocratiche che campano su antichi dogmi.

La FIOM, e più in generale i lavoratori e le forze sociali che ieri erano in piazza, hanno espresso tutto il nuovo che oggi si affaccia sulla scena sociale: le nuove forme di organizzazione operaia, di solidarietà sindacale e sociale, il mondo giovanile in fermento, tutta l'intellettualità "organica" alle nuove forme di resistenza sociale all'attacco che Confindustria, poteri forti e governo portano avanti contro i diritti e la democrazia reale.
Ma non è una condizione sufficiente allo sviluppo di un'alternativa politico-sociale. Quello che manca è il soggetto politico, è il "moderno principe" per dirla alla Gramsci, che è ancora lontano a venire per l'ignavia di una sinistra storica o "nuova" che sia che ha già fin troppo sacrificato sull'altare del politicantismo autoreferenziale, quello che invece dovrebbe essere un lavoro politico dal basso, di inchiesta operaia e autorganizzazione. Perchè la rappresentanza, non è quella che registri come tale dal tesseramento, o periodicamente dal voto legislativo o amministrativo. Ma è il prodotto di un lavoro politico dal basso, di internità alle lotte.
Di una metodologia politica, di una prassi che coincide con i contenuti di una visione democratica della società in divenire, con le sue contraddizioni epocali e con le sue potenzialità.

Oggi questo metodo lo ha paradossalmente un sindacato, il più confliggente che oggi abbiamo in Italia (se escludiamo forme di rappresentanza di base lodevoli, ma spesso poco incidenti sulla scena politica). Ma è un metodo che i comunisti in primo luogo devono tornare a far proprio. Così come il mondo di una sinistra "verde", di un socialismo democratico coerente e post DS. Senza più delegarlo alla spontaneità e alle organizzazioni sindacali.
Nel '43 gli scioperi i fabbrica erano frutto di un lavoro politico del partito. Senza voler fare inattendibili parallelismi storici, il metodo però resta.

Ma oltre al metodo, è ora di tornare a parlare di un progetto forte. Parlare di socialismo non è utopia, ma è ribadire che solo cambiando il modo di produrre, consumare, esistere socialmente, con tutta la sua gerarchia di valori osceni, è possibile garantire un futuro ai nostri figli. Perché il socialismo, ossia la gestione da parte di un'entità collettiva organizzata delle risorse di un paese, di un sistema economico-sociale e di un pianeta: il nostro, che ponga dei paletti alle possibilità individuali e private di incidere su tutta la collettività, che ponga regole non emendabili dalla prima forza politica che sale al governo e che sono regole a tutela della collettività stessa (poi viene tutto il pluralismo che si vuole), non solo è possibile ma è necessario e urgente se non vogliamo compiere gli ultimi passi verso la fine della nostra civiltà.

Non è un progetto da mettere in una teca e da "suonare" come l'Internazionale quando si fa qualche festa o si conclude qualche congresso, ma deve vivere giorno per giorno nell'attività politica, nelle scelte, nelle lunghe e inevitabili mediazioni d'alleanza. Disattendere a un percorso unitario della sinistra, limitarsi a fare atto di presenza alle sfilate sindacali, mantenere questa mentalità autoreferenziale significa esattamente allontanarsi da questo progetto, indipendentemente dalla posizione politica che si assume.
Diamoci da fare, compagni.

Nessun commento:

Posta un commento