lunedì 25 ottobre 2010

MARCHIONNE, E' LA FIAT A ESSERE UN PESO. PER I CITTADINI ITALIANI!



Ci voleva un intervistatore zerbino come Fazio per non replicare alle dichiarazioni di Sergio Marchionne sulla Fiat e l’Italia a Che tempo che fa di domenica sera.

Secondo Marchionne l’Italia, il cui stato (ossia, noi cittadini) ha finanziato l’azienda di cui lui è amministratore delegato da decenni, sarebbe un orpello. Non un solo euro di profitto dal belpaese. Un conto economico fatto da chi pensa che pecunia non olet e che la matematrica non è un’opinione. A quando Marchionne presidente del consiglio, a “fare le cose per bene” con la benedizione dei PD? Ah, prima c’è Montezemolo, a cui auguro di restare agli allori del cavallino e di lasciare la politica a chi ha un minimo di senso civile e di giustizia e non una visione della res publica come un autoveicolo da usare e gettare.

Allora a lui, ma in particolare al sciur Marchionne ricordiamo l’altra faccia della medaglia. Ricordiamo i soldi che la Fiat ha preso dalla collettività nazionale per mantenere una soglia di occupazione che non si traducesse in forti costi sociali per il paese. Per questo, se dovessimo considerare il rapporto costi/benefici per noi italiani, dovremmo mandare il procuratore fallimentare alla sede della consorteria Agnelli Elkan Gabetti, per esigere la restituzione di un investimento sociale che ha solo danneggiato il nostro paese.

Aree metropolitane ridotte al degrado per spostamenti di linee produttive, costi in servizi sociali, in sicurezza del territorio, in cassa integrazione.

E in effetti, non c’è bisogno di una rivoluzione socialista al prossimo cambio di governo favorevole ai lavoratori e ai cittadini più disagiati. Basterebbe applicare il corrente diritto “democratico liberale” per esigere il ritorno delle agevolazioni disattese, rapinate con il beneplacito di governi di destra e sinistra, delle prebende, degli incentivi, dei danari elargiti a un bel mucchio di grandi imprese nazionali e multinazionali, non ultimi i gestori per l’energia e la telefonia.

Basterebbe questo argomento per comprendere che se il potere economico resta nelle mani di poche famiglie rapaci, di cui gli azionisti Agnelli rappresentano gli appetiti più schifosi, il paese continuerà a essere saccheggiato da monopoli e cartelli che nulla hanno a che vedere con una “normale” economia di mercato (poi sul concetto “normale” ci torno, per chi pensa che ci può essere un mercato Paperopoli, dove il lattaio fa il lattaio e ha sempre gli stessi incassi), che valorizzi tutto mondo dell’impresa, a partire dalle piccole e medie aziende, senza agevolazioni, cordate, corruttele, senza politici di scuderia, senza amministratori, sempre gli stessi, su più tavoli, senza boiardi da stock option milionarie.

La realtà che esce dalla bocca di Marchionne è che l’arroganza del potere economico che rappresenta, ha raggiunto livelli di agibilità politica da autentico fascismo. E’ quella di un capitalismo parassitario che ha ridotto il paese in suo feudo, complice il potere politico e le finanze più o meno “creative” dei vari Tremonti e Visco. Un sistema blindato, fatto solo per le lobbies che fanno il bello e cattivo tempo da decenni. Altro che mercato. Un comunismo per pochi, con la differenza che Kim Sun in Corea del Nord è perfettamente riconoscibile.

Per capire chi comanda, basta solo vedere la geografia dei media, chi influenza l’opinione pubblica dalle tv e dai giornali.

Di fronte a questo sfascio, in cui contano solo i recuperi di Equitalia su una moltidudine di dannati dell’INPS per finanziare le crociate e le crociere di Riccardo, restano disattese le domande di Rinaldini alla Fiat: quale politica industriale, a fronte di tutti i soldi sborsati dai noi contribuenti? Come mai un operaio tedesco della Wolkswagen guadagna molto di più di un operaio italiano, ha diritti sul lavoro e qui il problema è quello del costo del lavoro? E una domanda anche al governo e a quella parte della pseudo-opposizione, Veltroni, Casini, Rutelli, ecc. che sostiene le ragioni dello smantellamento dei diritti dei lavoratori e che sostiene le posizioni vergognose di CISL e UIL (giuro non ho con me uova...): quale è il vantaggio che si acquisirà con il nuovo corso confindustriale, di cui Fabbrica Italia è stata la testa di ponte?

Al di là del pericolo piduista di Berlusconi, l’autoritarismo ha le gambe molto, molto più lunghe.

La questione vera è che non può esistere democrazia politica senza democrazia economica, senza soggetti economici che riconoscano non slo diritti, ma anche doveri, ossia responsabilità civili in materia di economia.

Quindi il punto non è solo di riequilibrare l’economia fermando l’egemonia neoliberista nella gestione dell’economia stessa e della politica finanziaria e fiscale del governo.

Il punto è che occorre ripartire da un’economia dove il mercato è fortemente regolato nell’interesse generale, nella redistribuzione della ricchezza sociale, nella gestione statale dei settori chiave e delle risorse vitali del paese, nella sovranità delle comunità locali nelle scelte gestionali riguardanti i territori di appartenenza (la vicenda di Terzigno ne è un esempio scottante). Il punto è che non si può non introdurre elementi di socialismo nelle politiche economiche, piazzando dei bei paletti alla voracità di consorterie che dal dopoguerra ad oggi, prima con la Dc poi con la “seconda repubblica” hanno imperversato deprendando il risparmio dei cittadini, creando cartelli, ridicendo il mercato del lavoro a un biafra della precarizzazione, attaccando sempre di più diritti e tutele che fanno la differenza tra un paese civile, evoluto, da un paese dove vige la legge del più forte.


Ma tutto questo, non può svilupparsi finché i “riformisti” d’ogni risma, di provenienza PCI o democristiana, pensano che basti un’oligarchia di tecnici illuminati, dei menenio agrippa de noantri, per risistemare le cose, magari mettendo il pattume sotto il tappeto e imbellettando la merda dei privilegi con qualche liberalizzazione bersaniana qualche settore sin’ora appaltato dalle corporazioni di sempre.

Significa ripartire da Pomigliano, ossia dalla forza politica e contrattuale, dal potere di base dei lavoratori e del mondo del precariato e del disagio sociale. Si tratta di ripartire da un soggetto che in sé racchiude l’interesse a ribaltare questi rapporti di forza, al di là di un ventennio di frammentazione e di perdita di identità collettiva.


Si tratta di vedere la questione democratica che oggi attanaglia il paese con il golpismo strisciante in atto, al di là del berlusconismo stesso. Perché prima, durante e dopo Berlusconi, s’intravede, e va visto sempre, il grigio volto d’un potere capitalistico che non ha mai concesso nulla, che ha sempre oscillato tra rumori di sciabola di atlantica memoria e “patti sociali”, che non erano patti, ma accordi di bottega con il più forte e venduto partito comunista dell’occidente.

E la questione democratica è la questione economica, la questione del lavoro, del modo in cui le persone riproducono la propria esistenza ogni giorno, centrale persino rispetto allo strapotere mediatico, alla dittatura di una politica asservita ai poteri forti e corrotta, che ne è una conseguenza e non la causa.

Struttura e sovrastruttura s’intrecciano, certo. E la sovrastruttura è molto potente, incide sui tempi stessi delle contraddizioni del capitalismo, sulla crisi. Ma comprendere dov’è il cuore delle contraddizioni del capitalismo stesso è cosa importante ed essenziale per qualsiasi prassi antagonistica e progetto di trasformazione sociale dell’esistente.


Saldare i movimenti del lavoro salariato, dipendente e precario, con i ceti medi ormai polverizzati nell’identità, nelle vecchie certezze, nell’uscita dal mondo del reddito e delle rendite garantite, unire le lotte del mondo del lavoro (che è anche quello dell’istruzione) alle lotte di comunità e di territorio sulle più diverse tematiche, ma tutte riassumibili nella questione della sovranità popolare sugli interessi privati di pochi e potenti pescecani. Questo è l’imperativo attuale.


Solo la classe operaia, può essere l’elemento riunificatore di questi fuochi di conflitto sociale. Perché il cuore di tutta la questione epocale è ancora una volta, e come sempre, il modo di produrre e riprodurre l’esistenza sociale delle persone, della società tutta.

Marchionne, Marcegaglia, Bonanni, non è finita la lotta di classe, ve ne acccorgerete. Ce n’est qu’un debut (continuons le combat).


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