domenica 13 novembre 2011

QUESTIONI DEL LENINISMO.

Non è un caso che oggi si torni a porre il “rifiuto del lavoro” nel dibattito tra le componenti più avanzate del movimento comunista rovoluzionario. Perché al di là del fatto che questo aspetto colga un processo, una contraddizione insita nel modo di produzione capitalistico bene colta dal pensiero operaista, la fine del lavoro nelle modalità e nei tempi dettati dall’accumulazione capitalistica e dal profitto, la questione di un processo rivoluzionario, il comunismo come movimento che abolisce lo stato di cose presente, quindi l’operaio che nega se stesso in quanto salariato, che “uccide” il proprio ruolo di lavoro vivo subordinato al ciclo produttivo del capitale, non è detto che questo stesso aspetto sia automatico nelle rivendicazioni congiunturali e contingenti della classe.

E questo aspetto è solo un esempio, tra l’altro importante per gli orizzonti di una rivoluzione dei rapporti di produzione e sociali capitalistici, che mi porta a confermarmi ancora oggi leninista. Anzi, più di ieri.
In definitiva sono ancora leninista perché ritengo che un partito, una forza politica comunista non debba essere semplicemente espressione di aspirazioni generali della classe, che sono legate pur sempre a ciò che consente di vivere una vita dignitosa, il lavoro, le sue condizioni, le condizioni salariali, i servizi come la sanità, l’istruzione, il futuro per i propri figli, la casa e via dicendo.
La differenza tra lotta economica (economicismo) e lotta politica (questione dei rapporti di forza tra classi e del potere), la funzione del partito nell’apportare la coscienza (conoscenza delle proprie condizioni in relazione a un progetto di ordine nuovo, di città futura, di hombre nuevo) alla classe (il partito è il moderno principe perché è nel contempo il Prometeo), nel porre la QUESTIONE DEL POTERE, ci fa capire come siamo distanti da questo ruolo, da questa identità, che è quella dell’avanguardia, da parte delle organizzazioni storiche della sinistra radicale e non solo nei numeri e nella presenza nelle realtà di lotta.
Sono questioni che Rifondazione ed eccetera vari non hanno ben chiari. Questioni che nel ’68 e negli anni ’70 venivano acquisite in modo scolastico e dottrinario, ma che oggi sono del tutto inesistenti in chi pretende di rifarsi a un’esperienza storico-politica delle organizzazioni comuniste del secolo scorso.
Il partito contenitore un po’ giustizialista (nel senso di giustizia sociale) delle aspirazioni della classe, il partito che si oppone e basta in virtù di una giustizia sociale preclusa, esce dal marxismo per entrare in una sorta di collettivismo etico, slegato dai processi materiali e conflittuali che attraversano la società.
Militare in Rifondazione è un po’ come parcheggiarsi in un comodo cocoon di certezze, supportate da un’adesione fideistica ai classici (quindi si è comunisti, ovvia!).
Ma essere comunisti significa essere un’altra cosa, un altro tipo di soggettività. Significa legare le aspirazioni generali della classe e un processo che vive materialmente nella società a un progetto che nasce dalle contraddizioni sociali, tra capitale e lavoro, nei rapporti di produzione e sociali in un dato contesto storico e congiunturale, legare ciò che si intende fare epocalmente, sulla base delle contraddizioni portanti del sistema capitalistico e alla società comunista in embrione o possibile tendenzialmente, a ciò che è possibile fare in questo dato momento storico, in base allo sviluppo delle forze produttive, ai rapporti di forza tra classi, al contesto economico e politico contingente. Non è atteggiamento etico, anche se l’etica è nell’imprinting di una scelta fatta a monte dal comunista, dal suo paradigma filosofico. Ha una forte componente scientifica. E questa componente si manifesta nella politica rivoluzionaria e nell’apporto di coscienza dall’esterno alla classe, ai suoi movimenti conflittuali, che poi sono tutt’uno, non certo solo pura propaganda da giornaletto. Quindi una forza politica comunista è movimento interno al movimento più generale della classe. E’ sintesi politica della ricchezza dei contenuti e delle espressioni, delle pratiche sociali messe in campo, nel senso di una qualità nuova che spinge più avanti per maturità e consapevolezza il movimento di classe.
Il leninismo come metodologia e prassi dei comunisti organica e interna ai movimenti conflittuali della classe è esattamente l’elemento che trasforma la classe in sé in classe per sé, che pone la questione dei rapporti di forza.

Badate, non è una cosa semplice, non lo è mai. Un esempio. La vulgata dei vari troschi e sinistri indica nella svolta di Salerno l’inizio di una svolta riformista del PCI. In realtà il punto non è stato quello, anche se è da lì che deve iniziare una seria riflessione sul movimento comunista in Italia. Il PCI nella guerra di Liberazione ha saputo costruire un partito di massa. Quella che prima era un’organizzazione contenuta di diverse tipologie e generazioni di quadri (i livornesi, gli svoltisti, gli spagnoli, ecc.), nel giro di pochi mesi ha costruito nel centro-nord un’organizzazione militare partigiana e una presenza sempre più diffusa nelle fabbriche e nelle campagne, che ha portato agli scioperi del ’43 e alla resistenza operaia nei poli industriali del nord, che non hanno eguali in Europa. Ha posto le basi per una sinistra forte nel dopoguerra. Con un’egemonia culturale che ha fatto da contrappeso all’influenza clerico-reazionaria nella società italiana della ricostruzione.
Anche sulla mossa a sorpresa di appoggio al governo Badoglio: è stato un capolavoro di ingegneria politica in un contesto in cui, a spartizione fatta tra potenze alleate, non era possibile trasformare una guerra di liberazione dal nazifascismo in una rivoluzione socialista. Togliatti ha capitalizzato l’egemonia politica che il partito aveva nella guerra partigiana rispetto alle altre forza politiche antifasciste e agli “autonomi”, ma l’errore dove è stato? Nel porre la classe operaia e i ceti contadini alla guida del processo di liberazione nazionale, epurando però da questo processo, ogni istanza di potere operaio e proletario nei luoghi di lavoro, nei cicli di produzione, nelle terre. E questo si è visto nel dopoguerra: sul piano dei rapporti di produzione, si poteva ottenere molto di più anche in un contesto di occupazione alleata.
Il PCI aveva sacrificato le istanze e gli istituti di democrazia diretta che nascevano nel corso della guerra di liberazione partigiana, a favore di un patto tra forze politiche: DC, PSIUP, azionisti, monarchici, embrioni di quella democrazia rappresentativa che da sola ha rappresentato sì con la fine del fascismo il nuovo sistema democratico italiano, ma anche la devitalizzazione delle forze e delle spinte a un cambiamento radicale degli assetti di potere nell’economia e nella società stessa.
La questione del potere ha due connotati: il fatto che sia di classe, ossia espressione di istituti di potere popolare, e il fatto che riguardi la cellula economica della riproduzione capitalistica: il ciclo produttivo, nella sua accezione più ampia ogni ambito in cui la società capitalistica si riproduce in quanto tale, forze produttive e rapporti di produzione.
Il rifiuto del lavoro è potere operaio: il potere di controllare la produzione secondo le esigenze della comunità nascente e non più in funzione del profitto.
Nell’immediato si lotta per il lavoro, certo, ma anche per un reddito di cittadinanza garantito, per lavorare meno e lavorare tutti, per iniziare a svincolare l’attività produttiva, l’economia dal profitto, dai meccanismi dell’accumulazione capitalistica.
Per fare questo devi arrivare a controllare la produzione, devi collettivizzare (socializzazione delle forze produttive).

Ergo, in questa fase, che cosa possiamo fare per fare politica rivoluzionaria, per passare da soggetti, tutt’al più quadri politici (spesso senza neppure organizzazione), a soggetto politico comunista nelle realtà di movimento?
In un momento in cui la maggiore preoccupazione per una famiglia, per un lavoratore è il lavoro, quali indicazioni?
Occorrono risposte che spostino politicamente, che si traducano in azione di massa generale, non semplici parole d’ordine.


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