domenica 15 agosto 2010

ONTOLOGIA DEL SOCIALISMO /5




La felicità (ovvero: Gandhi o Renato Curcio?). Ho introdotto una categoria che pertiene più a un campo etico? Che poco ha a che vedere con una visione del mondo materialistica? Eppure nel marxismo, tutto ruota attorno a un cambiamento sociale che vede l’uguaglianza, ossia la fine dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, della divisione tra classi, come elemento di progresso, come stadio ultimo della comunità umana. Ciò significa benessere, affermazione delle proprie attitudini nella società. Se guardiamo alla tendenza all’aumento del capitale costante (le macchine) su quello variabile (la forza-lavoro umana), slegando il processo produttivo al profitto, alla creazione di plusvalore, possiamo pensare alla liberazione dal lavoro e a un’attività umana più creatrice di valori, quindi di cultura, di bello, quindi arte. Il Marx del frammento delle macchine dei Grundrisse.

Questo per dire che la felicità, intesa come affermazione dell’individuo in un contesto ambientale e sociale privo di costrizioni e miseria, è un tema che aleggia nel socialismo, nel pensiero comunista. Dirò di più: è l’asse portante del materialismo storico e dialettico, perché il comunismo stesso è analisi e azione scientifica nella società con un forte connotato etico. La felicità del corpo sociale e di ogni singolo individuo che appartiene ad esso è il fine indiscutibile del comunismo, un presupposto analogo al giuramento di Ippocrate, ossia, la premessa dell’esercizio di medico, come per un dottore il fatto di guarire un ammalato abbia per implicito fine la guarigione di questo, il suo benessere, la durata e la qualità della sua vita.

Non mi addentrerò nel campo pertinente l’interiore umano, nel fatto che la felicità, in definitiva, sia qualcosa che ognuno di noi ha, come una pietra focaia contiene il fuoco, o un chicco di grano la spiga e, quindi, il pane. Non parlo neppure di una dimensione mistica, o di quella psicologica, che possono avere dei forti legami con l’ambiente sociale e culturale, con il tipo di vita che l’individuo conduce.

Come scienza sociale, il socialismo può dare delle risposte sulla qualità della vita di un corpo sociale, ossia di una formazione economico-sociale secondo il punto di vista di chi sta effettivamente male in quella società, e quindi così facendo, cura il benessere della comunità intera.

Ma comunque, il socialismo non ha mai inteso la felicità come la felicità di qualcuno e non di qualcun altro. Non era nelle premesse del pensiero di Marx o di Engels e neppure in quello di Lenin. Nel marxismo c’è una visione umanistica suprema, che è stata dilaniata dagli esegeti dell’assolutizzazione della classe per sé e del conflitto, dagli apprendisti stregoni della più grande storpiatura del Machiavelli, quella del “fine che giustifica i mezzi”.

Si legge Marx o Lenin, ma si interpreta Karl Schmitt.

Meno male che nell’imprinting filosofico del marxismo, soprattutto sul piano etico, si mantenga vitale Hegel. Questo ci aiuta a dare una chiara risposta alle aberrazioni novecentesche, agli inferni illiberali e genocidi, ai terrorismi che una parte di chi si richiamava a tale dottrina ha prodotto. Ma di più: come il giuramento di Ippocrate per il medico, è l’etica a guidare l’analisi e l’azione comunista o socialista. Parlerei di etica della felicità e del bene comune, per la precisione.

Ciò non significa rifiutare in assoluto la violenza. “Andare sui monti” nel ’43 è stato necessario per liberare il paese dal nazifascismo. Ma è stata una situazione eccezionale, esattamente come quella trattata in precedente sezione sulla governance di soggettività rivoluzionarie, di potere popolare in transizione.

Ciò significa però che il fine e i mezzi sono esattamente la stessa cosa, pertanto il socialismo punta a un’evoluzione della società umana attraverso la gestione dei conflitti sociali nelle modalità meno invasive possibili, nel rispetto della vita umana, del contesto democratico (anzi: valorizzandolo), nell’affermazione dei diritti civili e politici. Ciò è maggiormente possibile nelle democrazie liberali, senza diventare esegeti di queste,

cancellando come fa il PD, una visione di classe, riconducendo quindi le iniquità, le differenze, le ingiustizie a una non meglio precisata e generica “mala gestione” della res publica. L’anticapitalismo è nell’imprinting del socialismo, ma lo è anche una visione della politica come arte del possibile. Come base per avvicinarsi all’”utopia”.

All’inizio di questa sezione c’era una parentesi con una domanda. La risposta è Gandhi (non me ne voglia il Curcio di oggi: ho solo preso uno stereotipo che renda chiara la differenza che intendo marcare). La vera azione rivoluzionaria del socialismo non sta nell’atto violento che cristallizza uno dei tanti comportamenti che una lotta politica può assumere in casi estremi come l’8 settembre del ’43 in Italia o oggi in Palestina contro il sionismo di estrema destra. Sta indissolubilmente nella forza del popolo, quindi delle classi sfruttate e oppresse. Se la coscienza politica è diffusa tra le masse e la conflittualità esprime dei gradi maturità in un contesto come l’Italia, il problema è utilizzare gli strumenti democratici per governare il cambiamento. In generale è far crescere l’organizzazione di classe e la sua incisività nel contesto economico e sociale con “armi” come lo sciopero, il boicottaggio, la disobbedienza civile. Se la lotta è vasta e diffusa, non c’è carro armato che tenga. Le economie crollano quando crollano le borse, quando i capitalisti non fanno più profitti. Le vere bombe del terzo millennio? Sono i consumatori consapevoli, i cittadini che tutti insieme scelgono e agiscono toccando il portafoglio dei pescecani.

Compito dei comunisti in Italia oggi, è far crescere la coscienza politica a partire dalla classe e dagli strati sociali più colpiti dalla crisi, aprendosi a tutti i cittadini, è portare a livelli più alti e diffusi l’azione di critica al neoliberismo e a questo modello di produzione e consumo che sta devastando il pianeta e distruggendo le risorse di tutti e, nel contempo, partecipare alla vita democratica e istituzionale per portare il punto di vista di classe e una politica di gestione ecosostenibile delle risorse e dei cicli produttivi.

Felicità e non-violenza, dunque, sono il fine e il mezzo principali del socialismo, del comunismo oggi uscito dai suoi estremismi speculari al pragmatismo guerrafondaio e sfruttatore del capitalismo. Oggi è chiaro come gli estremismi delle elite di partito si riproducano nelle medesime modalità delle consorterie e dei gruppi di potere delle società capitalistiche. Cina e USA sono le due facce della stessa medaglia. La Cina rappresenta l’approdo di questa visione distorta del marxismo, divenuto strumento “sacro”, eterne verità che non legittimano altro che una delle modalità, forse la più odiosa, in cui il capitalismo stesso si riproduce. Così com’era il capitalismo di stato sovietico.

Oggi conosciamo i danni che provocano ai movimenti di lotta, gli estremismi dell’esaltazione dell’atto “rivoluzionario” soggettivo come azione di un’avanguardia che assolutizza la necessità della violenza in un atto disperato e autodistruttivo. Il sacrificio come una modalità dell’azione politica. Missionari col mitra, molto cattolici.

Felicità nostra e altrui, dunque, come categoria primaria del socialismo. Il primato dell’etica su qualsiasi altra categoria. Di fronte a tante analisi che hanno attraversato la fine del millennio, questa semplice visione è l’autentica eredità che i padri del pensiero storico e materialistico dell’800 ci hanno lasciato. Il resto è scienza, è “medici senza frontiere”. Con Ippocrate nel cuore.


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