lunedì 14 febbraio 2011

SE NON ORA, QUANDO?


La grande mobilitazione di ieri, che non ha visto in oltre 200 piazze italiane solo le donne, ma la società civile in generale, è un segnale forte a chi pensa che l'Italia debba continuare a essere in balia di un potere marcio e corrotto.
E' sceso in piazza il paese civile, l'altro sentire comune, oggi sicuramente maggioritario. Quello del bene comune, della difesa della democrazia, del superamento di ogni tentazione reazionaria e oscurantista, di un autoritarismo che è nei fatti, quotidianamente, nei mille gesti di arroganza del governo e del suo capo incontrastato.

L'Italia non ha bisogno di faraoni, ma di una classe dirigente scevra da ogni interesse privato in atti pubblici. Anche Fini l'ha gridato forte, dimentico che proprio lui e la sua AN hanno contribuito all'ascesa del gruppo politico dirigente più pericoloso che la storia italiana abbia mai avuto dopo il ventennio fascista. Insieme alle cordate fameliche di faccendieri che da tangentopoli in poi, dal '94 in avanti, hanno depredato l'Italia, rafforzato monopoli e cartelli osceni, diffuso una pratica di corruzione e collusione con i poteri mafiosi, complice un centrosinistra cialtrone e buono solo a tatticismi e mercimoni, in un do ut des sulla pelle del suo stesso popolo di sinistra, dei lavoratori, dei milioni di giovani senza prospettive.

Non illudiamoci. Proprio per questo lo scenario è cupo. Perché se il rischio è che il vuoto di potere venga occupato da forze politiche che rappresentano il vecchiume imbellettato di novità, in un travaso gattopardesco dei poteri forti da una parte all'altra, di contro manca totalmente un soggetto poltico, un fronte di forze coeso e ben definito che rompa definitivamente con questi poteri. Né il cosiddetto terzo polo, Fini e Casini in testa, né il centrosinistra per come si configura ora, possono rappresentare il nuovo.

I primi ambiscono a essere quella destra moderna ed europea che mancherebbe in Italia, concedendo al paese civile una sorta di democrazia dell'alternanza, il riconoscimento di regole condivise e nuove regole da condividere. Al momento solo parole, ma comunque liberalizzazione dell'economia sempre all'insegna del mercato.
I secondi sono un patetico guazzabuglio, sono divisi su tutto, con una parte ormai supina alle nuove politiche sul lavoro incarnate da Marchionne. E con troppi interessi corporativi locali da difendere.


In questa partita occorre fare in fretta e pensare a un soggetto che guardi meno ai tavoli dela politica ufficiale e più al paese reale, che sostenga senza riserve e con molta chiarezza le ragioni economiche e sociali di un paese devastato da questa crisi strutturale. Una forza plurale, ma che non sia disposta a trattare sui diritti dei lavoratori, sulle prospettive dei giovani, sulla necessità di dare risposte concrete a quei ceti medi ormai privi di possibilità, bastonati da una fiscalità sorda e spietata e per nulla incentivati nelle attività produttive e commerciali. Una forza che rimetta al centro la partecipazione popolare alla vita democratica, che pensi a forme di democrazia diretta: le uniche che possono riportare senso e funzionalità al sistema costituzionale della democrazia rappresentativa. Questa è la vera riforma, al di là delle alchimie che sta strologando la casta polirica in genere.

Questa scelta dà anche il senso dell'essere di sinistra, dell'essere financo comunisti. Il primo passo di una alternativa anticapitalista deve porre una prima pietra di definizione: cosa significa essere anticapitalisti. Contrastare il mercato tout court sognando cube mediterranee, oppure individuare l'avversario principale da battere, come nessun altro sta facendo oggi: chi ha trasformato il mercato in una propria borsa della spesa? Parlo del capitale finanziario, della grande industria da sempre parassitaria, che non investe, che campa di incentivi, di finanziamenti d'ogni tipo.

Il welfare può rinascere solo da politiche che diano impulso alle tante piccole attività, che tassino le grandi rendite, che liberalizzino da una parte, nel campo delle risorse, della telefonia, ma che riconducano ogni libera impresa a quell'art. 41 tanto attaccato. Nessun padrone può delocalizzare impunemente, dopo aver ricevuto soldi pubblici. La Fiat lo deve capire e la deve pagare.

Quello che occorre è una politica che coniughi difesa del bene comune e delle fasce più deboli al controllo di ogni settore dell'economia, valorizzando quelle iniziative private che contraccambiano alla collettività. In un concetto solo: passare dalla centralità dei profitti alla centralità del bene comune.
E credetemi, una scelta simile in Italia, come in qualsiasi altro paese a "democrazia liberista", sarebbe un'autentica rivoluzione. Ma è una proposta poliglotta, perché si fa capire da tutti i settori sociali che oggi chiedono il cambiamento.

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